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Comunicazione non violenta: scegli di essere sciacallo o giraffa?

di Sara Di Santo

Viviamo in un mondo in cui l’atteggiamento violento è sovraesposto ed enfatizzato in troppi contesti della quotidianità. I luoghi di cura e i professionisti della salute, almeno loro, dovrebbero riuscire a dar vita ad ambienti tutt’altro che ostili, ambienti che accolgano nel vero senso della parola la persona. Primo passo verso l’accoglienza è la Comunicazione Non Violenta.

Il linguaggio sciacallo è un gridare senza comprendersi

Ogni giorno siamo bombardati da un’infinita serie di “comunicazioni” dalle forme e dagli obiettivi più disparati. Gettati in un calderone di messaggi di cui siamo più o meno consapevoli, ci lasciamo trasportare dalla corrente del comunicare a tutti i costi. Anche quando non avremmo niente di così costruttivo da dire.

Non è tanto questo il problema, quanto piuttosto lo è il modo in cui comunichiamo. Se ci fermassimo un istante a riflettere, scopriremmo facilmente che le nostre comunicazioni quotidiane sono fatte di linguaggi che giudicano, impongono, classificano, stigmatizzano, esprimono considerazioni spesso sfavorevoli e si servono di imperativi, uno fra tutti il “devi”.

Viviamo nell’epoca di quello che lo psicologo americano Marshall Rosenberg (1934-2015) ha definito linguaggio sciacallo, utilizzando la metafora dell’animale che si nutre di carcasse di altri animali per enfatizzare quanto possa essere violento ed opportunista un determinato modo di rivolgersi all’altro.

Complici i ritmi frenetici della vita moderna, la serie di sfortunati eventi che sembrano abbattersi con la precisione di un cecchino proprio su di noi, la diffidenza imperante nei confronti dell’altro che, a guardarlo bene, ha tutta l’aria di volerci fregare, ci trasformiamo in sciacalli noi per primi, che non si sa mai. E cadiamo nella violenza, verbale e non verbale.

La comunicazione nei luoghi di cura

L’approccio alla persona malata è influenzato dalle culture di appartenenza, dalla personalità dei soggetti e dalla dimensione (biologica, personale, umana) secondo la quale ci si dovrebbe avvicinare ad un determinato assistito.

La cura, figlia della “cura di esistere” che tutti abbiamo impressa, è prima di tutto relazione, con sé stesso e con l’altro.

Mai come oggi e mai tanto quanto all’interno della relazione infermiere-assistito è forte l’esigenza di ritrovare autenticità e profonda comprensione per indirizzare il processo di assistenza verso pratiche che non riducano la complessità di un’esistenza a qualcosa di generalizzabile.

L’infermiere, inoltre, lavora al fianco di colleghi e di altre figure che ruotano attorno al mondo sanità; sono frequentissimi, purtroppo, gli episodi di conflitti all’interno di équipe multiprofessionali i cui componenti dovrebbero agire in sintonia per il bene di tutti, operatori compresi. Molto spesso si tratta di piccoli focolai che è proprio il linguaggio sciacallo ad appiccare o alimentare esponenzialmente.

È necessario che l’infermiere tenga in serissima considerazione le parole con le quali si rivolge all’altro, assistito o collega che sia, perché le parole possono essere “finestre” oppure “muri”: finestre che si affacciano sulla possibilità di un incontro e muri che trasformano l’occasione di incontro in uno scontro

Attenzione anche a voler colmare a tutti i costi un silenzio che mette noi a disagio, ma che con tutta probabilità ha una valenza significativa per l’altro. Riempire un silenzio pronunciando qualcosa che noi intendiamo “a fin di bene”, rischia di non promuovere chi di quel silenzio, in quel momento, ha bisogno.

La Comunicazione Non Violenta

La comunicazione avviene quando, oltre il messaggio, passa anche un supplemento di anima (Henri Bergson)

Sulla scia di questo concetto Marshall Rosenberg ha ideato la Comunicazione Non Violenta, un metodo per migliorare la capacità di comunicazione basata sulla ricerca della risoluzione dei conflitti e sul rispetto di sé, degli altri e di ciò che ciascuno desidera ottenere.

Se per indicare il linguaggio violento Rosenberg ha scelto lo sciacallo, per indicare quello non violento ha scelto la giraffa, l’animale che in natura ha il cuore anatomicamente più grande di tutti e che grazie al suo collo lungo riesce a “vedere lontano”.

Il linguaggio giraffa è un linguaggio che comprende, non giudica. È un linguaggio che accoglie e libera, che chiede con gentilezza e rende partecipe l’altro attivando una comunicazione di azione positiva che prevede un “noi”, abbattendo la necessità di innalzare muri difensivi.

Il linguaggio giraffa si serve delle fasi della comunicazione non violenta:

  • osservazione: osservare e descrivere in modo neutro ciò che accade intorno a noi e, senza giudicare, esprimere se le azioni concrete che osserviamo contribuiscono o meno al nostro benessere (“quando vedo…, sento…”)
  • esprimere i sentimenti: ascoltarsi a vicenda, chiedendo a sé stessi e agli altri come ci si sente in relazione a ciò che sta accadendo (“di fronte a questo, mi sento…”)
  • esprimere i bisogni: all’origine dei sentimenti ci sono sempre dei bisogni; occorre individuarli per mezzo delle emozioni, dei pensieri, dei desideri e delle sensazioni che ne sono la cartina tornasole (“avrei voluto vederti, per poterti raccontare…”)
  • fare richieste negoziabili: educarsi ad avanzare richieste su ciò che desidereremmo che l’altro facesse affinché la nostra vita fosse più ricca e soddisfacente ed educarsi a farlo in maniera empatica, evitando atteggiamenti impositivi e manipolatori (“vorrei che tu…”)

Basandosi sull’ascolto di sé stessi (autoempatia), sull’ascolto degli altri (empatia) e sull’espressione autentica dei propri bisogni e sentimenti, questo processo articolato in quattro tappe aiuta a sentire la parte viva che c’è in noi e negli altri e a fare chiarezza, scrollandoci di dosso tutto ciò che è un di più.

Dire “oggi mi sono sentito attaccato” è molto diverso dal dire “oggi sei stato aggressivo”; “non ho avuto la possibilità di parlare” non è lo stesso che dire “non sei stato zitto un momento”.

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