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COVID-19

Mortalità intraospedaliera da arresto cardiaco nel paziente Covid

di Giacomo Sebastiano Canova

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È stato recentemente pubblicata sulla rivista Resuscitation una revisione sistematica con meta-analisi condotta da ricercatori italiani volta ad indagare il tasso di mortalità, il tasso di ritorno della circolazione spontanea (ROSC) e la sopravvivenza con esito neurologico favorevole nei pazienti con Covid-19 dopo un arresto cardiaco intraospedaliero.

L’arresto cardiaco intraospedaliero nel paziente Covid-19

È ormai risaputo come i pazienti con Covid-19 possano sviluppare una grave insufficienza respiratoria acuta e ipossiemia. Effettivamente, le comorbilità cardiorespiratorie sono state identificate come fattori di rischio per lo sviluppo delle forme più gravi della malattia. Un arresto cardiaco può quindi complicare il decorso clinico ospedaliero di questi pazienti come conseguenza di vari trigger, sia pneumologici (es. ipossiemia grave, pneumotorace) che cardiologici (es. embolia polmonare, prolungamento dell’intervallo QT). Oltre a ciò, la pandemia di Covid-19 ha determinato il ricovero di un numero senza precedenti di pazienti, fattore che è stato associato a un numero elevato di arresti cardiaci intraospedalieri.

Nonostante i tentativi di rianimazione cardiopolmonare, in letteratura sono stati descritti risultati scarsi dei pazienti con Covid-19 che sono andati in arresto cardiaco all’interno dell’ospedale.

Allo stesso tempo, è da tenere in considerazione come la rianimazione cardiopolmonare di un paziente con Covid-19 comporti dei rischi intrinseci per gli operatori sanitari, in quanto le procedure di rianimazione possono disperdere aerosol. Seguendo queste considerazioni è ampio il dibattito scientifico circa l’etica della rianimazione cardiopolmonare e degli ordini di non tentare la rianimazione nei pazienti con Covid-19.

La rianimazione cardiopolmonare del paziente Covid-19

Il risultato principale derivante da questo studio è che sebbene un paziente su tre con Covid-19 possa raggiungere il ROSC dopo un arresto cardiaco intraospedaliero con tentativo di rianimazione, solo uno su dieci può sopravvivere 30 giorni o alla dimissione ospedaliera e il 6% di questi può sopravvivere con uno stato neurologico favorevole. I tassi di mortalità sembrano essere altrettanto elevati, indipendentemente dal fatto che l’arresto sia avvenuto in terapia intensiva o in un reparto, sebbene quest’ultimo reperto sia altamente eterogeneo.

Recentemente è emerso in letteratura un intenso dibattito sull’etica degli ordini universali di non rianimazione per i pazienti con Covid-19. I dati pre-pandemia hanno mostrato che il tasso di ROSC dopo un arresto intraospedaliero nei pazienti adulti è aumentato dal 50% al 60-70% dipendente da gruppo di età, mentre il tasso di sopravvivenza alla dimissione ospedaliera è aumentato dal 15 al 25% nell’ultimo decennio in tutti i gruppi di età. Meno del 30% è stato dimesso dall’ospedale con disfunzione neurologica più che moderata e solo uno su tre di questi avevano una funzione neurologica gravemente compromessa.

Questi dati sono tuttavia molto diversi da quelli emersi da questa analisi, in quanto risultati peggiori sembrano molto più probabili nei pazienti Covid-19, nonostante la rianimazione. Questo risultato è corroborato dall’analisi di sensibilità effettuata dai ricercatori, che ha mostrato come i pazienti con Covid-19 possano avere un rischio di morte significativamente più elevato rispetto ai pazienti non Covid-19 dopo un arresto cardiaco intraospedaliero.

In questo ambito va tenuto in considerazione il fatto che i pazienti Covid-19 che subiscono un arresto cardiaco sono probabilmente già in condizioni critiche e come Covid-19 possa essere complicato da embolia polmonare, miocardite, danno miocardico e infarto miocardico dovuto allo stato pro-trombotico che accompagna la malattia. Tutte queste sono potenziali cause alla base dell’arresto cardiaco e ciascuna di queste può essere in grado di influenzare la possibilità di sopravvivenza dei pazienti con Covid-19. Pertanto, quando si discutono i possibili esiti dei pazienti l’enfasi non dovrebbe quindi essere sul fatto che il paziente ha il Covid-19, ma piuttosto sulla gravità complessiva della sua condizione clinica.

Un altro fattore che ha contribuito al dibattito sugli ordini universali di non rianimazione per i pazienti con Covid-19 è stato l’alto rischio di esposizione alle infezioni tra gli operatori sanitari durante l’esecuzione della rianimazione, in quanto tale attività comporta la generazione di aerosol. In questo è necessario tenere in considerazione come i dispositivi di protezione individuale dovrebbero essere indossati prima di iniziare la rianimazione e come il rischio di generazione di aerosol dovrebbe essere ridotto al minimo evitando la disconnessione dal circuito chiuso, l’esecuzione dell’intubazione da parte di un fornitore esperto e l’uso del videolaringoscopio.

Il numero considerevole di pazienti ricoverati contemporaneamente durante le epidemie di Covid-19, oltre alla necessità indossare i DPI, può anche aver influenzato le prestazioni della rianimazione e può anche aver aumentato il tempo dall’arresto cardiaco all’inizio delle manovre rianimatorie, tutti aspetti che potrebbero aver in definitiva influito sulle possibilità di sopravvivenza.

Sebbene l’evitare la rianimazione in tutti i pazienti con Covid-19 non sia supportato dalle prove disponibili, l’inutilità può ancora essere discussa sulla base del deterioramento clinico in corso nonostante l’erogazione di cure intensive. In questo va considerato come la rianimazione non inverta la causa dell’arresto cardiaco nella maggior parte dei pazienti critici, quindi il suo beneficio può essere basso. Al contrario, quando l’arresto cardiaco si verifica in condizioni subottimali nei reparti, i primi svantaggi che accompagnano questa situazione (ad es. arresto non testimoniato) può essere controbilanciato da una maggiore probabilità di reversibilità delle componenti acute della malattia (es. ipossiemia).

In conclusione, i dati delle evidenze disponibili suggeriscono un tasso di mortalità stimato di quasi il 90% tra i pazienti con Covid-19 dopo un arresto cardiaco intraospedaliero sottoposto a rianimazione cardiopolmonare, indipendentemente dal luogo di arresto, anche se un paziente su tre può raggiungere il ROSC. Inoltre, i pazienti Covid-19 sembrano avere un rischio di morte significativamente più elevato rispetto ai pazienti non Covid-19.

La decisione di iniziare le manovre rianimatorie, anche nei pazienti critici, richiede un approccio centrato sul paziente che riconosca le direttive anticipate insieme agli input dei sanitari. Certamente, quando il trattamento rianimatorio è ritenuto inutile o quando il rischio per chi è impegnato nella rianimazione supera il potenziale beneficio, la decisione di procedere con la rianimazione diventa più complicata. Per questo motivo sono necessari ulteriori dati per chiarire per quali pazienti Covid-19 il beneficio derivato dalla rianimazione potrebbe non giustificare il rischio sostenuto da questa procedura per il personale sanitario curante.

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