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Catetere venoso centrale e decesso. Analisi di una sentenza

di MS

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Con questo articolo vogliamo portare tutti voi all’interno di una sentenza della Corte Suprema di Cassazione, sezione IV penale. Vogliamo immaginarvi come delle matite o degli evidenziatori che sottolineano ciò che i giudici scrivono e pensano di noi infermieri.

Catetere venoso centrale e rubinetterie, storia di un amore mai nato

cvc

Catetere venoso centrale

Temperate le vostre matite; scegliete il colore del vostro evidenziatore e via, si parte!

Fatti: la signora Maria (così chiameremo la nostra paziente) viene ricoverata presso un presidio ospedaliero per essere sottoposta a trattamento chirurgico di un’affezione cardiovascolare. In seguito è sottoposta ad intervento chirurgico e, nei giorni seguenti, constatata la stabilizzazione del quadro postoperatorio, lascia l’unità operativa di rianimazione per essere trasferita in cardiochirurgia. Nelle ore seguenti la signora Maria peggiora, obbligando i medici a trasferirla nuovamente presso il reparto di terapia intensiva cardiochirurgica, all’interno del quale dopo circa 24 ore ne viene constatato il decesso.

Decesso che – risultava accertato senza contestazione alcuna – era stato provocato da una ischemia del miocardio scaturita dalla trombosi completa del lume della vena safena autologa, che a sua volta era stata determinata dalla perdita ematica acuta causata dalla deconnessione del catetere venoso centrale giugulare che era stato applicato alla paziente. In conclusione, la perdita ematica coagendo con altri fattori aveva determinato la trombosi.

In virtù di quanto suddetto vengono tratti dinanzi al Tribunale di Teramo per rispondere del reato di omicidio colposo:

  • Il medico di guardia;
  • 2 infermieri;
  • 1 infermiere generico.

Il medico viene da subito assolto, mentre i restanti tre convocati, vengono giudicati responsabili e condannati alla pena di sei mesi di reclusione ciascuno, pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento dei danni in favore dei familiari di Maria.

Riassumendo: nel primo grado di giudizio era da ascriversi agli infermieri il decesso della paziente, poiché avevano omesso di controllare con la dovuta attenzione l’avvitamento del catetere alla rubinetteria; gli stessi condannati non avevano fatto il giro del capezzale della paziente e non avevano avvisato il medico di guardia dell’accaduto. In conclusione la condotta omissiva degli operatori sanitari è stata ritenuta eziologicamente incidente sull’evento luttuoso poiché avevano determinato il prodursi della perdita ematica che aveva innescato la trombosi e quindi l’ischemia acuta del miocardio.

La storia continua: nel secondo grado di giustizia (La Corte di Appello dell’Aquila) viene ribaltata la sentenza di primo grado. Gli imputati vengono assolti:

  • la Corte di Appello ha ritenuto atto medico l’innesto del catetere venoso (tra l’altro si osserva che il cateterismo, essendo stato eseguito in un reparto diverso da quello dove prestavano servizio gli accusati, non gravava sugli stessi l’onere della sua corretta applicazione);
  • il collegio territoriale, confermando l’obbligo di controllare il corretto funzionamento dell’apparecchio a carico degli imputati, ha però rilevato che il mancato accertamento della specifica causa del distacco, rende impossibile affermare che esso fu dovuto allo scorretto avvitamento del catetere.

Sulla base delle sopra elencate motivazioni, il secondo grado di giustizia assolve gli operatori sanitari in quanto non può ascriversi agli imputati il non essersi accorti di una circostanza di incerta verificazione (il cattivo avvitamento).

Altri importanti spunti di riflessione ci giungono andando ad analizzare le ulteriori motivazioni argomentate dalla Corte di Appello; vengono presi in esame due aspetti fondamentali:

  • omessa assistenza infermieristica tra le ore 6 (orario dell’ultimo intervento infermieristico acclarato) e le ore 7 (epoca in cui si era manifestata la deconnessione del catetere venoso centrale giugulare);
  • indice di assistenza della signora Maria.

L’origine del ribaltamento della sentenza di primo grado, da parte dei giudici della Corte d’Appello si sostanzia nella cosiddetta assenza del nesso eziologico. Nonostante possano essere ravvisate carenze assistenziali, la paziente non era ad elevato indice di assistenza e risultava sottoposta a monitoraggio elettronico (al fine di evidenziare eventuali modificazioni della frequenza cardiaca e della saturazione di ossigeno nel sangue).

La condotta degli imputati non è quindi da ritenersi connotata dagli estremi di colpa.

Ultimo capitolo: Corte di Cassazione.

La parte civile, in difesa della paziente deceduta, ricorre alla Corte di Cassazione, denunciando alcune violazioni presenti (a loro dire) all’interno della sentenza di assoluzione nei confronti degli infermieri.

Occorre a questo punto ribadire il compito della Corte di Cassazione: viene definita “giudice della legittimità” poiché valuta solo le eventuali violazioni di legge compiute dagli organi giudicanti e non il merito delle singole questioni decise (P. Caretti, U. De Siervo).

Tale precisazione si è resa indispensabile visto che nelle motivazioni argomentate dalla suddetta Corte, vengono analizzati e valutati gli argomenti proposti dalla Corte d’Appello: il giudizio conclusivo è per l’impossibilità di ascrivere agli infermieri una negligenza o una imperizia nel controllo del catetere perché non accertato se lo stesso era stato avvitato in modo non corretto o comunque in un modo che rendesse percepibile al personale infermieristico l’anomalo funzionamento e la perdita ematica. Si tratta di una motivazione che sfugge al sindacato di questa Corte e che non pare in aperta contraddizione con i materiali di prova.

Fine della storia.

L’iter processuale si chiude con una serie di spunti di riflessioni, meritevoli di attenzione, non solo per noi operatori sanitari ma, certamente, anche per i giudici, visto che le sentenze fanno giurisprudenza.

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