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Gli Infermieri sono una risorsa per il Servizio Sanitario Nazionale

di Redazione

BarbaraMangiacavalli

Confronto al Forum di Arezzo su potenzialità ed evoluzione della professione infermieristica nel convegno Ipasvi su “La professione infermieristica come risorsa per il Sistema Sanitario Nazionale: competenze ed evoluzioni”.  Mangiacavalli: "Sviluppo delle competenze per far incontrare domanda e offerta".

ROMA. La strada che il ministero della Salute sta percorrendo è di portare a termine per gli infermieri, questa volta senza intoppi, il  percorso della riforma degli Ordini così come disegnato dal Ddl Lorenzin. Poi sul piatto di Lungotevere Ripa c’è la riproposizione del Comitato interno al dicastero di scienze infermieristiche, che renda partecipe la professione delle scelte programmatorie e  la soluzione al problema della discriminazione attuale degli infermieri militari.

A dare queste garanzie alla professione è stato Saverio Proia,  portavoce del ministero della Salute, intervenendo al convegno “La professione infermieristica come risorsa per il Sistema Sanitario Nazionale: competenze ed evoluzioni”, organizzato al Forum risk management in Sanità 2015 di Arezzo in partnership con al Federazione Ipasvi.
Al centro delle relazioni e del dibattito soprattutto due temi: le nuove competenze degli infermieri e la continuità ospedale-territorio, dove l’ospedale deve essere “per i pazienti e non per i professionisti” e non può rappresentare l’unico “luogo sicuro per chi ha bisogno di assistenza: non esistono cittadini di serie A e di serie B e per questo ospedale e territorio devono interagire tra loro”, ha detto Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione Ipasvi e moderatrice dei lavori.
Competenze tra Stato-Regioni e contratto
Per quanto riguarda le competenze specialistiche degli infermieri, Proia ha sottolineato nel suo intervento  che non si tratta di una vera innovazione: è una previsione già contenuta nella legge 43/2006 che già molte Regioni stanno attuando. Ora, ha spiegato Proia, è necessario sistematizzare il tutto prevedendo, anche grazie all’Accordo Stato-Regioni, percorsi ad hoc su cui disegnare la formazione. Al resto poi, ha sottolineato il rappresentante del ministero della Salute, penserà il contratto e il Comitato di settore darà indicazioni all’Aran perché la figura dell’infermiere specialista sia inserita nel nuovo accordo dal punto di vista sia del ruolo che dell’eventuale progressione economica legata magari, come già avviene in Toscana, al salario accessorio. “La posizione di infermiere specialista – ha detto - è un bisogno che ha l’organizzazione del sistema sanitario e non ci sono scuse perché possa non decollare. Esiste già nelle Regioni forti e con l’accordo aiuteremo anche quelle deboli a uniformarsi. Le altre professioni dovranno farsene una ragione”.

Infermieri, "chiave" delle cronicità
Che un tipo di assistenza come quella infermieristica sia maggiormente vicina, anche grazie alle competenze avanzate, ai nuovi bisogni della popolazione, è risultato evidente al convegno di Arezzo dall’analisi demografica di Davide Croce, della Liuc. Le cronicità aumentano e assorbono oltre il 70% delle risorse, l’ospedale non ce la può fare e serve un modello di assistenza diversa. Croce ha illustrato tre scenari: quello immobilista, proprio di chi ignora la possibilità di cambiamento e resta ancorato al vecchio modello di assistenza (come nel caso di quasi tutte le Regioni in piano di rientro, il che dimostra anche la sua inefficacia), quello virtuoso di chi invece apre l’assistenza a sperimentazioni avanzate soprattutto di continuità reale ospedale territorio e, infine, la sanità integrativa. Secondo Croce il primo e il terzo scenario possono convivere tra loro, ma la strada non è questa. Il Paese è “anziano” e se l’ospedale è un luogo “comodo” a cui rivolgersi, milioni di malati cronici (il 30% della popolazione) non è li che possono trovare soddisfazione ai loro bisogni. Nei prossimi dieci anni, ha ricordato Croce, andranno in pensione il 58,5% degli attuali medici di medicina generale, il 60,8% degli ospedalieri, il 61% del personale amministrativo e il 28,5% degli infermieri che sono quindi “più giovani” e rappresentano – non solo per questo ovviamente - la vera risorsa emergente della sanità. Soprattutto, proprio, sul territorio.

Modello Ipasvi, work in progress
L’evoluzione dell’infermiere specialista, però, non deve  concentrarsi tanto sul ruolo di management che questo nei fatti già si svolge da anni, ma deve, secondo Beatrice Mazzoleni, segretaria della Federazione nazionale Ipasvi, andare nel senso dello sviluppo clinico di questa figura, anche dal punto di vista del relativo percorso formativo. Mazzoleni  ha ricordato a questo proposito il modello proposto dall’Ipasvi, sempre in progress grazie anche ai lavori dell’apposita Commissione della Federazione e al confronto sempre aperto anche con le altre professioni. Si parte dalla necessità di un coordinamento trasversale dell’assistenza che richiede nuovi ruoli, già individuati nelle aree specialistiche descritte nella bozza di accordo Stato-Regioni. Si prendono a riferimento  le necessità del cittadino a cui spetta la vera leadership nell’assistenza e si disegna un percorso al termine del quale il “nuovo” professionista condivida alla pari con altre professionalità le scelte cliniche.

Nel modello Ipasvi, ha ricordato Mazzoleni, è prevista una figura di infermiere con perfezionamento clinico che si riferisce a un infermiere che ha seguito un corso di perfezionamento universitario che lo ha messo in grado di perfezionare le sue competenze “core” applicate a un'area tecnico operativa molto specifica. Poi c’è l’infermiere esperto clinico con master che si è formato con un master universitario di primo livello che lo ha messo in grado di approfondire le sue competenze declinandole in un settore particolare dell’assistenza infermieristica. E infine l’infermiere specialista clinico con laurea magistrale, formato con laurea magistrale in Scienze Infermieristiche con orientamento in una delle aree previste dall’accordo Stato Regioni. Questo infermiere è in grado di orientare, governare  sia i processi assistenziali tipici di una certa area clinica, sia le competenze professionali necessarie per realizzarli.
E che il modello funzioni lo hanno testimoniato le esperienze illustrate al convegno.
In ospedale appropriatezza e risparmio
Per il settore ospedaliero, Maurizio Zega, direttore delle Professioni Sanitarie Policlinico Gemelli, ha spiegato come l’azienda universitaria di Roma, grazie alla rivoluzione del modello di assistenza è riuscita a pareggiare conti che dalle perdite senza precedenti del 2012 sono passati all’equilibrio. Il “trucco” è stato proprio quello di saper gestire le cronicità ed evitare la ripetizione dei ricoveri. Grazie alla riorganizzazione, si “misura” il paziente e si decide un piano di assistenza individualizzato che è tutto infermieristico e indica, nel caso, le complicanze cliniche e le attività a esse correlate. Un meccanismo che ha anche consentito di identificare tra i pazienti ritenuti fragili classificati finora soprattutto tra gli anziani, anche componenti pediatriche.  Il percorso prevede anche l’accompagnamento del paziente nella continuità assistenziale col territorio, a questo punto secondo un modello legato non solo alla sua età.

La best practice della gestione infermieristica
Altra best practice esperienza ospedaliera è quella dell’Umbria, ricordata dal presidente del Collegio Ipasvi di Perugia, Palmiro Riganelli. La Regione ha realizzato nell’Azienda ospedaliero universitaria della città, un’unità di degenza infermieristica, che rappresenta una validissima alternativa al ricovero classico e rappresenta un modello di ottimizzazione degli indicatori organizzativi e clinici. In presenza di una quadro clinico stabile, la valutazione multidisciplinare condivisa col medico è traferita all’unità di degenza infermieristica, operativa sette giorni su sette e  che provvede alla garanzia di tutti i bisogni assistenziali del paziente. Nei sei mesi di attività che l’unità ha svolto finora, Riganelli sottolinea che tutti i pazienti assistiti (oltre 230) non hanno avuto problemi di alcun genere e il presidente Ipasvi ha aggiunto che in un’analisi a campione, i medici, gli assistiti, i professionisti coinvolti, si sono detti assolutamente soddisfatti dell’esperienza. Questa, secondo Riganelli, proprio grazie alle nuove competenze potrà avere maggior crescita professionale e soddisfazione sia dei singoli professionisti che di tutto il team coinvolto.

Territorio alla prova delle Rems
Anche le esperienze sul territorio, grande assente dal panorama dell’assistenza, hanno evidenziato che dove la riorganizzazione c’è, funziona. E’ il caso delle Rems illustrato da Mara Radavelli, dirigente Professioni Sanitarie AO Carlo Poma Mantova, che ha definito lo sviluppo dei nuovi modelli come “work in progress”, ma ha anche sottolineato la necessità di una progettazione condivisa per trovare soluzioni che consentano il cambiamento, superando le ultime resistenze. Il modello illustrato da Radavelli  prevede Rems di osservazione per i pazienti da cui poi questi sono trasferiti in Rems specifiche, mirate alla loro condizione. Un intervento personalizzato e individualizzato basato proprio sulle competenze dei professionisti e realizzato con una presa in carico interprofessionale che converge sui bisogni della persona. Per questo la chiave, ha concluso Radavelli, è proprio in quei percorsi di formazione ad hoc che si stanno delineando anche grazie al modello Ipasvi.

Infermieri, garanzia di continuità
Sul territorio “siamo noi a dover suonare il campanello, non più il paziente” ha detto metaforicamenteFabia Franchi, del  Collegio Ipasvi Bologna, direttore di Distretto sanitario. Il senso è quello di descrivere un’assistenza in cui l’infermiere partecipa alla vita del cittadino e non resta passivamente  in attesa di una sua richiesta di bisogno. E’ una caratteristica della figura dell’infermiere di famiglia, ormai alle porte, che si sgancia da elementi di tipo prestazionale per dare una risposta completa di assistenza sul territorio: il paziente è quello che si vede in quel momento e al quale vanno garantiti tutti i presupposti per l’accesso alle cure.  E’ questo il significato del concetto di continuità. Un modello, ha spiegato Franchi, che ha avuto migliore accoglienza sicuramente dall’esterno che non dall’interno del sistema sanitario e che è legato alle competenze e alle capacità dei professionisti. Competenze che rappresentano lo sviluppo di una professione che alla base è e resta quella infermieristica.

La sfida delle reti di cure primarie
“Lo sviluppo delle competenze – ha concluso Mangiacavalli – è un problema soprattutto culturale. Legato alla necessità di far incontrare domanda e offerta. Anche per questo è necessario far partire il territorio: la rete territoriale delle cure primarie è la vera sfida. L’ospedale dà sicurezza al paziente, ma a domicilio c’è la persona, i suoi veri bisogni nella sua vita quotidiana, le necessità che vanno al di là della fase di diagnosi e cura. E a domicilio deve esserci l’infermiere: dobbiamo fare in modo che ospedale, dove ci siamo già, e territorio si parlino e concertino le modalità operative per attuare quella che rappresenta la sfida del nuovo modello di sistema sanitario: la vera continuità di assistenza del paziente”.
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