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Infermieri

Il tempo della cura è il tempo dell’ascolto

di Marco Alaimo

Il tempo è una questione di Tempo. Quante volte il fattore “tempo” si va a scontrare con altre realtà che cercano di prendere il suo posto? Ci sono gli impegni, le cose da fare, l’organizzazione, il rispetto del tempo stesso con gli orari prestabiliti.

Il tempo che dedichiamo all'assistito è terapeutico

Quanto tempo ci vuole per "curare"?

Siamo esseri umani e anche se lavoriamo in contesti di “cura” organizzati con dei tempi da rispettare, veniamo nostro malgrado influenzati dal tempo.

Parlo da infermiere, ma potrei rivolgermi ai medici, ai fisioterapisti, agli OSS, a tutti i professionisti della Salute e ai malati, che spesso ci guardano correre e inesorabilmente si faranno di noi delle idee più o meno costruttive.

Appena si arriva a lavoro c’è il tempo delle consegne, uno spazio “sacro” di condivisione; c’è il tempo della terapia da somministrare e il tempo delle lesioni da curare. Il tempo dedicato alla visita dei malati e alle cure da dispensare.

Tempo di fare e disfare, tempo da riempire e alle volte da dedicare. E poi arriva il tempo di lasciare e dimenticare. Perché è arrivato il tempo di “stimbrare” e tornare a dare senso ad altro tempo da usare.

Nell’insieme delle molte cose da fare automaticamente ascoltiamo e prestiamo attenzione alle richieste dei nostri malati. Ma non sempre è un tempo dedicato, ma bensì un “ritaglio” di tempo che dobbiamo prenderci quasi di nascosto. Perché non c’è mai abbastanza tempo e stare fermi lì ad ascoltare può sembrare “tempo sprecato”. Un regalo che facciamo ai malati e spesso a noi stessi.

Ma questo non è giusto e noi lo sappiamo. Anche l’ascolto e il Tempo ad esso dedicato deve rientrare tra le normali attività di cura e deve essere riconosciuto come tempo prezioso.

Molti studi confermano che: Parlare con i pazienti riduce i ricoveri e migliora le cure del 40%. Ma solo 1 su 5 è un medico “amico”. Il tempo medio di una visita non supera i 9 minuti e già dopo 20 secondi il racconto del paziente viene interrotto dalle domande del dottore. Questi i dati emersi nel corso del 116° Congresso nazionale della Società italiana di medicina interna, durante il quale è stato proposto di inserire nel corso di laurea in medicina e chirurgia un modulo di scienze umane (Quotidiano Sanità, 11 Ottobre 2015).

Pochi pazienti – osserva Gino Roberto Corazza, presidente Società Italiana di Medicina Interna (Simi) – vedono appagato il loro desiderio di dialogo col medico, che spesso è troppo frettoloso o assente: in media guarda lo schermo del pc o dello smartphone anziché la persona che ha davanti per i due terzi del già scarso tempo della visita.

Ascoltare le ragioni e le emozioni del paziente è invece il punto di partenza fondamentale per avere una visione più ampia e circostanziata della patologia e porre una miglior diagnosi, per prescrivere esami e terapie più adeguate che poi saranno seguite con maggior convinzione e attenzione: ognuno di noi ha bisogno di sentirsi accolto nella sua esperienza di malattia, sapere che il medico ‘ci capisce’ innesca meccanismi che favoriscono l’aderenza alla terapia e perfino il miglioramento di parametri biologici. È una questione di Tempo.

Mai prima d’ora abbiamo avuto così poco tempo per fare così tanto (Franklin Delano Roosevelt)

Eppure nella “Carta di Firenze” redatta da alcuni dei principali esperti del settore medico-sanitario e presentata il 14 aprile 2005, si propone una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente.

Il tempo della comunicazione? Deve considerarsi tempo di cura. È il principio di fondo della “Carta di Firenze”, documento che raccoglie 15 principi etici individuati come elementi cruciali per migliorare la comunicazione tra medico e paziente e instaurare quindi un rapporto corretto.

Si dice che il paziente ha diritto alla piena e corretta informazione sulla diagnosi e sulle possibili terapie, ma ha anche diritto alla libertà di scelta terapeutica, scelta che deve essere vincolante per il medico.

Ma soprattutto si ribadisce e si pone attenzione al punto 5, che asserisce: “Il tempo dedicato all'informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura”.

Bisogna tornare, come ci ricordava Umberto Veronesi, alla “Medicina della persona”. Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per che cosa gioisce e per che cosa soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei suoi disturbi. Oggi le cure sono fatte con un manuale di cemento armato: Lei ha questo, faccia questo; ha quest’altro, prenda quest’altro.

Ma così non è curare.

È Tempo di Cura

La questione del tempo quindi assume una rilevanza strategica nelle relazioni e nelle terapie come nella compliance e nella buona aderenza tra curante e curato.

Da un punto di vista teorico sappiamo già queste cose e nei vari corsi e congressi spesso si cerca di mettere in evidenza aspetti critici. Ma poi, tornati nelle nostre realtà lavorative, ricomincia il quotidiano correre, il continuo rispondere automaticamente, il sostanziale “non avere mai tempo per…”

Dovremmo interrogare le nostre organizzazioni sanitarie e chiarire le priorità e le necessità dei nostri malati e delle nostre attitudini. Siamo produttori di salute e di benessere e cerchiamo con difficoltà di “riparare ciò che era rotto” o, almeno, di riabilitare le capacità residue. Ma serve tempo per dare cura

Possiamo lottare sempre contro il tempo? Possiamo ridimensionare il tempo di cura dei nostri malati? Possiamo sprecare questo dono prezioso che ci è stato dato?

Io penso che dobbiamo riprenderci il nostro tempo, il tempo che dedichiamo al malato e dimostrare quanto sia prezioso, indispensabile e terapeutico. Questa sarebbe una bella conquista e un bel regalo, che potremmo donare e donarci.

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