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Emergenza-Urgenza

Terapie intensive aperte, siamo davvero pronti al cambiamento?

di Daniela Berardinelli

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Terapie intensive aperte o terapie intensive chiuse? Questo è il dilemma.

Terapie intensive, aprirle o no?

terapia intensiva

Un'infermiera al lavoro in una terapia intensiva

Nonostante da anni la letteratura si stia interrogando in merito all’apertura degli spazi così ristretti e operativi delle terapie intensive ai parenti per un periodo di tempo maggiore dei canonici trenta minuti fino a un massimo di continuità nelle 24 ore, qualcosa ancora non torna.

L’esperienza della terapia intensiva è sempre molto personale e si presta a plurime interpretazioni, ma è sempre caratterizzata da intense emozioni. È un microcosmo pieno di tecnologia e complessità, a far da padrona lì sono le macchine, i ventilatori, i monitor, le rampe di pompe infusionali, i rubinetti, i deflussori, una gran confusione di cavi, tutti però rispettosi di un doveroso e puntuale ordine e codice colore. Spesso nelle stanze o meglio negli stanzoni, i cosiddetti open space, non troviamo nemmeno gli orologi, o in alcuni casi sono molto lontani e spesso non visibili da tutte le postazioni letto e quindi dai pazienti. Il tempo lì non è scandito dagli orologi, ma dal tic dei monitor, dal bip delle infusioni, dal rumore del ventilatore del letto di fianco.

Il tempo scorre e la maggior parte dei pazienti nemmeno se ne accorge, dormono un sonno profondo, giorno o notte che sia. Le attività sono sempre le stesse, ma sempre diverse, perché diverso è ogni paziente e il suo approccio, le sue necessità, i suoi fabbisogni primari e secondari. Noi siamo lì, giorno o notte che sia, un po’ infermieri, un po’ tecnici di questi macchinari da cui spesso dipende totalmente la vita dei nostri assistiti.

La letteratura evidenzia i benefici dell’assistenza incentrata su un modello paziente-famiglia riscontrando un aumento della soddisfazione delle cure da parte di entrambi, una diminuzione dell’ansia percepita, una migliore aderenza alla terapia durante il ricovero e nel follow-up. Siamo pronti per questo piccolo grande cambiamento? La percezione che ho è che non lo siamo pienamente o quantomeno non dappertutto. È una sfida, sicuramente grande, che si orienta verso l’umanizzazione delle cure e la visione olistica dell’assistenza ai nostri pazienti. Troppo spesso mi accorgo però che l’accoglienza che riserviamo a questi parenti, impauriti, titubanti, timorosi di ogni bip che circonda il loro caro, preoccupati di non aver compreso pienamente la situazione del parente o quel lessico tanto complesso e medicalizzato dei sanitari che gli ruotano intorno, non è delle migliori. Leggo nei volti di alcuni colleghi la scocciatura per l’invasività degli spazi, per le domande, la non voglia di accogliere quelle persone e rispondere a quelle preoccupazioni. Il fastidio perché interrompono il lavoro o creano confusione in un ambiente che cerchiamo di tenere rigidamente ordinato. Alcuni fuggono in cucina per non farsi trovare, altri si arrabbiano perché i parenti si danno il cambio per salutare il proprio caro.

Quale immagine diamo? Come ci stiamo relazionando? Stiamo lavorando per noi o per il paziente? La gestione del parente è un lavoro arduo e faticoso, nei reparti di medicina e chirurgia dove l’invasività è continua e frastornante, spesso non consente nemmeno di uscire dall’infermeria e arrivare alla camera dell’assistito, perché si è travolti da una tempesta di domande, alcuni parenti chiedono informazioni sul “letto numero ..”, sono entrati anche loro nella logica numerica, spetta a noi riportarli alla dimensione umana del nome, questo lì rassicurerà più di ogni altra cura.

In un mondo ideale sarebbe bello rapportarci sempre con persone educate e gentili, ma purtroppo nella realtà questo non è scontato e quindi bisogna trovare dei meccanismi di adattamento anche a questi fenomeni con i quali purtroppo siamo costretti ad interfacciarci ogni giorno, ancora di più in terapia intensiva.

Forse la verità sta nel mezzo e nel buon senso, orari più elastici con un numero massimo di visitatori al giorno (parenti più stretti?), concessioni di un parente h 24 vicino al malato, istruito sulle dinamiche di reparto e sulle esigenze organizzative? Se ci apriamo veramente al dialogo non credo otterremo mai una risposta negativa, salvo fatte rare eccezioni. E forse non lavoreremmo meglio anche noi in alleanza con il caregiver? Non trarremmo più soddisfazione dal nostro lavoro? Il tutto non avrebbe maggior senso? In quale direzione ci stiamo spingendo? È possibile pensare ad una realtà dove il lavoro, duro, stressante, ricco di imprevisti e urgenze, spesso con personale sottostimato, si possa provare ad affrontare (per un turno di 8/12 ore) con il sorriso o quantomeno non con la seccatura impressa nel volto? A noi la scelta.

Per fortuna questa tematica è ancora attuale e molti ricercatori si stanno impegnando per trovare il modo migliore di stringere un’alleanza terapeutica con il paziente e la sua famiglia.

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