Nurse24.it

Salute

Regioni: maggiore autonomia anche in sanità?

di Giordano Cotichelli

Uno sviluppo dell’autonomia regionale, in tema di sanità – ma non solo – appare sempre più come la premessa di un allargamento della forbice delle disuguaglianze nella salute, vedi ad esempio la tanto deprecata mobilità passiva fra regioni ricche e regioni povere. E poi torna la questione della trattazione nel mercato sanitario in tema di prezzi ed appalti e viene da chiedersi se la regionalizzazione ulteriore della sanità nazionale e il moltiplicarsi di soggetti decisori, potrà essere utile ad impedire fenomeni di corruzione e malasanità.

Salute pubblica, si va verso la scomparsa dell'universalismo

Italia, il paese della regionalizzazione della salute pubblica

C’era una volta il SSN, di cui oggi si dovrebbe festeggiare il 40esimo compleanno, ma che nei fatti sembra non avere più il peso di un tempo in tema di indirizzo nazionale dopo che, con la riforma del Titolo V della Costituzione, si sono venuti a creare ben 21 diversi sistemi (19 regionali e 2 provinciali).

Una tendenza che sembra non dover cambiare di indirizzo dato che, nei giorni scorsi, il percorso di autonomia, per le Regioni a statuto ordinario, già avviato lo scorso inverno per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sembra allargarsi ad altre sette regioni (Marche, Lazio, Liguria, Toscana, Piemonte, Umbria e Campania) i cui governatori hanno avuto mandato, come previsto dall’articolo 116 della Costituzione, di intraprendere trattative con Roma per un aumento dei campi di intervento locali.

Le rimanenti regioni, o non hanno completato l’iter istituzionale previsto (Puglia, Calabria, Basilicata) o non lo hanno iniziato (Abruzzo e Molise). Alla fine si produrrà un’accentuazione della regionalizzazione della salute pubblica, già avviata da tempo, specie in tema di spesa farmaceutica, scuole di specializzazione e ticket, lungo un percorso che assume il nome di regionalismo differenziato, dove però l’universalismo del SSN rischia di scomparire.

È bene cercare di fare chiarezza rispetto al quadro presentato. I dati Istat parlano di un Paese in cui la salute è disuguale da Nord a Sud, dal centro alla periferia, in relazione al genere, al reddito e all’occupazione.

Un paese dove i determinati della salute e della malattia pesano in misura maggiore in alcune aree rispetto ad altre. Leggere tutto questo con la visione prospettica di organizzare meglio le risorse a disposizione, le priorità cui rispondere e le fragilità da sostenere in maniera solidaristica è una chiave di lettura di uno sviluppo dove una maggiore autonomia locale può significare ulteriore capacità di coordinamento che elimini particolarismi di sorta, sul piano territoriale, professionale, dell’empowerment, dei servizi e delle prestazioni.

Buona cosa, se così fosse. Anzi, “se così era”, visto che quanto schematizzato era già presente nella riforma Sanitaria del 1978 e nella strutturazione delle USL (Unità sanitarie Locali), come venivano definite allora.

La partitocrazia, come afferma qualcuno, le lottizzazioni di sorta, e la “politica” hanno portato a livelli insostenibili di cattivo funzionamento il sistema, obbligando, così dissero a suo tempo, alle riforme degli ultimi decenni che, in realtà, non sembra abbiano migliorato la situazione. Tutt’altro.

Uno sviluppo dell’autonomia regionale, in tema di sanità – ma non solo – appare sempre più come la premessa di un allargamento della forbice delle disuguaglianze nella salute, vedi ad esempio la tanto deprecata mobilità passiva fra regioni ricche e regioni povere

Tanto per capire di che cosa si sta parlando, basta guardare i numeri del Pil nazionale e delle rispettive espressioni regionali. Con una media nazionale di 26.946 euro (dati Eurostat per il 2016) al Nord si collocano le regioni maggiormente ricche: quelle a statuto speciale come Trentino – Alto Adige (37.561), Valle d’Aosta (36.720), seguite dalle regioni “ordinarie” quali la Lombardia (35.421), Emilia Romagna (33.217) e Veneto (30.710); le tre che hanno intrapreso già il percorso di maggiore autonomia.

Se si è ricchi si preferisce stare da soli? In questo si potrebbe chiedere però quale interesse abbiano le altre regioni a rendersi autonome, rischiando nei casi peggiori di “autogestire” le proprie miserie e basta. In realtà questa fuga lontano da Roma è finalizzata a rafforzare le tante piccole capitali del Bel Paese, tutte con i loro piccoli e grandi interessi da gestire, lottizzare, appaltare, etc.

A pensar male, molto spesso, ci si prende

Come si dice: “A pensar male, molto spesso ci si prende”. Oltre il venir meno dell’idea solidaristica (non è tempo, pare, per essere buonisti), risulta difficile comprendere come sia possibile, ad esempio, risparmiare sulla spesa farmaceutica in futuro, aumentando i soggetti interlocutori, anziché riducendoli seguendo la centralizzazione organizzativa.

Perché mai l’acquisto di una siringa dovrebbe costare di più in una regione anziché in un’altra? O l’acquisto di un macchinario? O ancor più una prestazione da un erogatore privato?

Sì. A pensar male c’è il rischio di prenderci. Ed allora forse è meglio pensare in termini… infermieristici. Ma anche per gli infermieri c'è disuguaglianza: la selva delle retribuzioni e dei contratti privatistici, in appalto, da libero professionista o con cooperative varie, mostra molte voci diversificate per un mondo quale quello sanitario, che nella sostanza dovrebbe essere invece abbastanza costante e omologato; almeno sul piano finanziario.

Sul piano meramente assistenziale inoltre un paziente, nella sua diversità di bisogni, è uguale agli altri, in termini di equità assistenziale, di accesso, di cura, da Nord a Sud; perché dunque correre dietro ad una ulteriore polverizzazione delle risorse? Qualcuno probabilmente tirerà fuori i Lea, ma nella realtà basta molto meno per capire questa nostra Italia della Terza (o quarta … quinta … sesta … boh!) Repubblica.

In merito, sempre in termini infermieristici, ma relativi all’associazionismo, forse può essere utile una lettura del regionalismo differenziato attraverso la lente localistica rappresentata dalla numerosità e dalla diffusione dei vari OPI (Ordini delle Professioni Infermieristiche) a livello nazionale i quali hanno risorse e producono risposte in maniera diversificata in relazione ai contesti socio-economico, culturale e professionale di riferimento.

Ed in questo viene da chiedersi se quelli che hanno maggiori risorse – di capitale umano, ma non solo – rappresentano un ciclo virtuoso solo per sé stessi, per la loro ristretta cerchia geografica o al contrario diffondono e condividono pratiche e saperi. E, se lo fanno, come e in che misura?

La Federazione Nazionale (Fnopi) è certamente funzionale in questo e può rappresentare un esempio, ancor prima che uno strumento, da seguire per impedire, sul piano del regionalismo differenziato, la creazione di tanti feudi locali funzionali solo ad aumentare disuguaglianze e iniquità. E quello che vale per gli OPI, ancor più è ravvisabile a livello di associazionismo professionale, specialistico o generalista dove i saperi e le pratiche di cui migliaia di professionisti si fanno portatori, dalle realtà locali, piccole e molto spesso chiuse, sentono il bisogno di aprirsi e confrontarsi a livello più ampio, nazionale, condividendo risorse e percorsi.

In pratica si può dire che le professioni si stanno evolvendo in controtendenza rispetto alle istituzioni? Troppo schematica come deduzione, di certo il suggerimento che arriva dal mondo infermieristico e da quello professionale della sanità in generale è che “piccolo” non sempre è sinonimo di “migliore”.

Alla fine, fuori da qualsivoglia considerazione filosofica o politica, torna la questione della trattazione nel mercato sanitario in tema di prezzi ed appalti e viene da chiedersi se la regionalizzazione ulteriore della sanità nazionale e il moltiplicarsi di soggetti decisori, potrà essere utile ad impedire fenomeni di corruzione e malasanità.

Forse sarebbe necessario provarlo prima su di un modello matematico probabilistico, piuttosto che ritrovarsi a discutere fra qualche anno sull’urgenza di aprire ancor più ai privati e alle assicurazioni per rimediare ad una assistenza sanitaria “distrutta” dalle sperimentazioni localistiche. Ma questi, al momento, sono solo cattivi pensieri.

NurseReporter

Commento (0)