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editoriale

Medicina Narrativa, maneggiare con cura

di Lucia Teresa Benetti

Questa è una fase delicata nella crescita e nell’applicazione della Medicina Narrativa. Perché se fatta con non criterio, se pensata come un “qualcosa” a sé, ne deriverebbero solo danni e delusioni cocenti. Medicina Narrativa è, deve essere, parte della Cura della Persona. Sia esso un paziente quanto un operatore. Ma non ci si deve improvvisare.

Ricaduta positiva della medicina narrativa sulla Cura

Medicina Narrativa: una novità? Direi proprio di no. Direi che da tanto tempo sta cercando di farsi strada nella mente dei professionisti in sanità anche se con diverso “successo”.

“Successo” tutto, completamente, legato alla sensibilità e all’apertura di cuore e di mente delle persone in oggetto. Medicina Narrativa che non è un argomento da salotto, da personaggi alternativi. Medicina Narrativa che non significa “quattro amici in reparto” a chiacchierare faticosamente di sé stessi. Di domande e risposte relative a una situazione di malattia.

Medicina Narrativa che se fosse solo questo sarebbe avvilita. Sarebbe una negazione ad una situazione naturale. Propria dell’uomo. Da sempre.

Perché, se ci pensiamo bene, da sempre l’uomo ha avuto la necessità di raccontare e di raccontarsi. Soprattutto in una situazione di malattia

Perché, come dice Berson, siamo storie, fatti di storie, viviamo dentro a storie e raccontiamo storie.

Medicina Narrativa, che se fosse solo una “raccolta” di risposte a determinate domande sarebbe inutile. Lascerebbe l’amaro in bocca. Ci farebbe sentire delusi.

Per questo dico che, se vogliamo approcciarci a questa disciplina, bisogna – non “bisognerebbe” – documentare ed allenare la nostra mente usando, provando, mettendo in campo tutti gli strumenti che già ci sono per attuarla.

Non ci si può improvvisare! Non ci si può muovere mossi solamente da una lodevole buona volontà. Se con metodo, infatti, si applica quella che molti considerano, con un mezzo sorriso ironico sulla bocca, una moda del momento, allora anche dal punto di vista scientifico si potrà constatare la ricaduta positiva della stessa sulla Cura.

Potrà essere tradotta all’interno di tutto il sistema sanitario facendoci trovare, poi, con una visione diversa del concetto di unicità di persona anche se ognuna con il proprio, diverso, ruolo.

Questa è una fase delicata nella crescita e nell’applicazione della Medicina Narrativa. Perché se fatta con non criterio, se pensata come un “qualcosa” a sé, ne deriverebbero solo danni e delusioni cocenti.

Quel “Narrativa” che accompagna “Medicina” non vuole indicare “qualcosa” di complementare, “qualcosa” che ancora deve ottenere una qualche approvazione. Medicina Narrativa è, deve essere, parte della Cura della Persona. Sia esso un paziente quanto un operatore.

I nostri cari, vecchi medici di famiglia, che tutto sapevano di noi e dei nostri cari, questo già lo facevano. Lo applicavano in maniera naturale, ovvia, scontata. Perché erano ben consci che la malattia fa parte, è un momento, spiacevolmente naturale, della vita di ognuno di noi.

Ed è ripensando proprio a loro, alle loro capacità di diagnosi (senza tanti, troppi esami o strumenti sofisticati a disposizione), alla loro autorità consapevole e affettuosamente presente nel fare accettare quest’ultime, le terapie o, peggio, il fine vita, che il sapere di avere accanto un esperto in sanità che, oltre a guarirci fisicamente, possa anche prendersi Cura di noi, diventa un notevole fattore in più nella via della vera e più completa guarigione.

È questo fatto che non viene completamente capito da molti attori in sanità. Forse perché, oggi come oggi, la Persona viene “spezzettata” in una specie di mosaico in cui ogni “esperto” sa dove operare. Incurante del resto. Senza più visione olistica.

O forse perché si pensa che sia una perdita di tempo. Non considerando, invece, quel tempo come un tempo di Cura.

O, peggio, forse, per paura di una perdita di potere che per molto tempo, ma ancora oggi, accompagna la figura del sanitario.

Ma qualcosa si sta muovendo

Una nuova consapevolezza da parte di molti attori in sanità sta nascendo. E questa idea, così spesso derisa, guardata con diffidenza e sufficienza, sta seminando, ma anche raccogliendo frutti.

Così, se le nostre organizzazioni gestionali chiedono risultati, chiedono i “numeri” per giustificare corsi o sperimentazioni in reparti particolari (pensiamo alle oncologie, alle dialisi e a tutti quei luoghi che ospitano i pazienti cronici) con tranquillità si possono fare affermazioni incontestabili.

Tutto questo ad un patto: che vada rispettata ed applicata come si deve

Perché negarla, trattarla con sufficienza o superficialità, parlarne con velata ironia, come una presa in giro, non è altro che porsi davanti al nostro prossimo in difficoltà con un atteggiamento di arroganza.

Di stupida non consapevolezza del nostro essere individuo fra altri individui. Ascoltare, porsi in un atteggiamento di ascolto non è sicuramente facile. Fare parlare, lasciare liberamente parlare guidando anche la conversazione non è facile se non c’è fiducia.

E quella fiducia si acquista con gli atteggiamenti. Con il porsi, con un sorriso, con una gentilezza, con un tocco di mano sul braccio, con un piccolo gesto che faccia capire a chi è in difficoltà, a causa di malattia, di non essere solo.

E allora ancor prima della guarigione scoppierà un altro miracolo: quello dell’affidarsi. Quello di lasciare andare tutte le resistenze. Quello che porterà paziente e operatore sanitario in una specie di complicità.

Tutto questo mi sarebbe piaciuto sentirlo dire nella sessione riguardante la Medicina Narrativa durante l’ultimo congresso al quale ho partecipato, dove ho visto sicuramente buona volontà, ma non concretezza.

Spero sia il primo passo per uscire dal buio. Spero non sia stato un tentativo valso a nulla. Perché di questo non se ne aveva bisogno. C’era bisogno di “voci”, di fatti, di concrete realtà che già esistono.

Doveva essere un palcoscenico per far conoscere. Per far capire. È stato solo un ingarbugliato tentativo di parlarne.

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