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HIV in gravidanza

di Mavì Puglia

L’HIV è una delle malattie ad oggi più presenti e colpisce soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2016 le persone affette da HIV nel mondo sono state stimate 36,7 milioni, di cui le nuove infezioni circa 1,8 milioni. Le donne sono 17,8 milioni mentre i bambini con un’età inferiore ai quindici anni sono 2,1 milioni. Inoltre, 19,1 milioni di persone risultano essere in terapia con farmaci antiretrovirali. Spesso il contagio può interessare anche donne in gravidanza e portare con sé una trasmissione materno fetale. Il rischio di trasmissione materno fetale di HIV si aggira intorno al 20%, sebbene sia possibile diminuire questo rischio al di sotto del 4% somministrando la terapia antiretrovirale alla madre in gravidanza e al neonato durante le sue prime sei settimane di vita. Per questo motivo già nel primo trimestre è importante effettuare un esame definito con l’acronimo TORCH (Toxoplasmosi, Others, Rosolia, Citomegalovirus, Herpes), all’interno del quale l’HIV rientra nella categoria “others” (altri) insieme a Sifilide, Epatite e Parvovirus.

Conseguenze feto-neonatali dell’HIV in gravidanza

Se contratta durante le prime settimane di gravidanza l'infezione da HIV può provocare un aumentato rischio di aborto, correlabile con circa tre volte la frequenza attesa nella popolazione sana.

Mentre se il feto è infettato nelle fasi più tardive della gravidanza questo può dar vita a nascita prematura oppure il feto può presentarsi come SGA (Small for Gestional Age).

Inoltre, molto spesso i neonati alla nascita possono presentare:

  • Ritardi di crescita
  • Microcefalia (inferiore al 5° percentile per età gestazionale)
  • Ipertelorismo, bozze frontali prominenti, naso insellato, rime palpebrali oblique o allungate con sclere blu e naso corto con radici larghe

HIV e tipologie di trasmissione

La trasmissione avviene principalmente secondo tre modalità:

  • Parenterale
  • Sessuale
  • Verticale

Quest’ultima può avvenire a sua volta secondo diverse modalità: durante la gravidanza per via trans-placentare, al parto (sia esso per le vie naturali o per via laparotomia attraverso il taglio cesareo) oppure durante l'allattamento.

La trasmissione intrauterina aumenta soprattutto nella fase finale della gravidanza risultando quasi nulla al suo inizio, perché l’infezione avviene attraverso il contatto diretto con il liquido amniotico delle cellule e mucose fetali.

Nella metà dei casi, comunque, l’infezione avviene durante il parto, essendo molto più presente un contatto diretto con sangue o liquidi biologici, i quali possono essere ingeriti dal feto e venire assorbiti attraverso la mucosa orofaringea e gastrica del feto al momento della nascita.

Se invece il neonato risulta positivo dopo 3-6 mesi l'infezione è riconducibile al periodo del post-partum. In questo caso l’allattamento al seno rappresenta la modalità di trasmissione del virus HIV con un’incidenza del rischio pari al 22%.

Management del parto

Una delle principali questioni da porsi nel caso che la donna gravida risulti essere sieropositiva è la carica virale della madre, infatti più alta è la viremia maggiore è il rischio di incorrere in una trasmissione verticale che invece si riduce fino a diventare nullo se la viremia è bassa.

Secondo il Sistema Nazionale per le linee guida (SNLG) e il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists per quelle donne che non hanno svolto alcuna terapia antiretrovirale in gravidanza o che l'abbiano svolta ma che presentino un valore di carica virale plasmatica superiore a 50 copie/ml è consigliabile espletare un parto tramite taglio cesareo programmato intorno alla 38 settimana al fine di prevenire la rottura delle membrane.

Mentre è possibile espletare un parto per la via vaginale qualora la terapia antiretrovirale è stata effettuata e la carica virale plasmatica è presente come < 50 copie/ml.

In tal caso però sono criteri di esclusione al parto vaginale tutte quelle situazioni che hanno potuto comportare un contagio materno fetale tra quali ritroviamo: pPROM, oppure PROM > 6 ore non in travaglio.

HIV e allattamento

Nel 2010 OMS e UNICEF hanno emesso nuove raccomandazioni sull’allattamento in presenza di HIV che sono state viste come “rivoluzionarie”. Un dato molto importante presente in queste raccomandazioni è che con il trattamento materno con antiretrovirale e sei mesi di allattamento esclusivo (il bambino non deve ricevere né cibo né liquidi eccetto il latte materno, nemmeno l’acqua) il rischio di trasmissione post partum del virus si può ridurre virtualmente a zero.

Inoltre, dopo i primi sei mesi di vita era previsto che l’allattamento continuasse, con introduzione di cibi solidi, fino a 12 mesi. Nel 2016, l’OMS ha esteso la durata raccomandata dell’allattamento in caso di madri HIV+ fino a 24 mesi.

Come si cura l’infezione da HIV in gravidanza

Ad oggi i farmaci più in uso per contrastare l’HIV rientrano nella categoria HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy), che permettono l’abbassamento della carica virale.

Il trattamento farmacologico tuttora maggiormente usato è l’Azidotimidina (AZT), anche nota come Zidovudina (ZDV) e deve essere iniziato alla 20a settimana di epoca gestazionale.

La monoterapia con Zidovudina riduce il rischio di trasmissione dal 25,5% al 8,3% ed è indicata nelle donne con carica virale inferiore alle 6-10 mila copie/ml.

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