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editoriale

Quando anche l’infermiere va in pensione

di Monica Vaccaretti

Dopo 41 anni e 10 mesi oggi un altro infermiere va in pensione. Soltanto perché è donna, se fosse un uomo dovrebbe farsi un anno in più. Non ho mai capito questo sconto legato al genere. Va in pensione anche lei, ha contato i giorni dopo aver fatto domanda per sapere quanti gliene mancassero. L'altra collega, che l'aiuta a preparare il rinfresco d'addio, sta facendo lo stesso calcolo da qualche mese. A fine 2024, forse già dall'estate per via delle ferie da finire, sarà messa a riposo. Non vede l'ora, ed è una gran lavoratrice. L'infermiera che va in pensione oggi sa, ma non è colpa sua, che non verrà sostituita.

Al suo posto hanno già comunicato che non mandano nessuno

Falli tu, 41 anni e 10 mesi così.

Al suo posto, come capita negli ultimi tempi, hanno già comunicato che non mandano nessuno. Non perché non importi, ma perché non ci sono davvero più infermieri da far girare anche se ce ne sono tanti che chiedono i trasferimenti di reparto.

Del resto, quelli più giovani e forti, senza acciacchi e limitazioni, occupano già posti più impegnativi, spostarli da altre unità operative causerebbe un disservizio altrove.

Così lavora chi resta, ancora lontano dalla pensione. L'organico impoverito rimane scoperto, mancante di una unità. Come una goccia, manca al suo mare.

Si emoziona l'infermiera, divisa tra la felicità di aver finito e la tristezza che sia finita. In fondo è passata una buona parte della vita, quella lavorativa ha spesso tolto tempo ed energia a quella personale.

Sarà strano non timbrare più il cartellino, ma non farlo più è una libertà ritrovata. Essere senza orari e disporre liberamente del proprio tempo è impagabile. Basta sveglia all'alba, basta partenze da casa due ore prima dell'inizio del turno per trovare parcheggio nei posti riservati ai dipendenti. Basta pause caffè per svegliarsi o superare la stanchezza, basta pausa pranzo consumata in fretta e con quel che passa l'ospedale.

Basta rapporti professionali con gli utenti e i pazienti. Basta rapporti con i colleghi, collaborativi o conflittuali. Basta turni settimanali, quindicinali e mensili da aspettare. Basta cambi per un pomeriggio al posto di una mattina. Basta notti. E seconda notte smontanti notte per coprire una malattia improvvisa.

Da domani si dorme a casa, se si riesce a riprendere un normale ritmo del sonno, senza disturbi, dopo una vita vissuta tra gli smonti e i doppi o singoli riposi compensativi. Che quando ci si compensa è già ora di ricominciare. Falli tu, 41 anni e 10 mesi così. Tutti uguali, ripetitivi.

Si emoziona l'infermiera, salutando i colleghi scende qualche lacrima. Andare in pensione significa lasciare un lavoro che si è scelto in gioventù per passione e che si è portato avanti in età più matura per necessità. Significa perdere il proprio ruolo sociale.

L'infermiere poi riveste pienamente questo ruolo fondamentale per il benessere della società, anche se spesso non gli viene riconosciuto come dovrebbe, neanche da parte del paziente. Sembra quasi di non lavorare neppure un giorno se si fa un lavoro che si ama, secondo Confucio. Sulle spalle il peso degli anni spesi con un lavoro pesante ed impegnativo, fisicamente ed intellettualmente, si sente invece, eccome.

Per amore della professione e nel ricordo di tutto quel che di bello si è dato in quarantuno anni e 10 mesi, viene quasi l'impulso di restare. Ma non si può, non si deve. È tempo di riposare, di dedicarsi delle cure, di fare altro. Di cambiare attività. Di avere tempo per gli affetti, di vedere il mondo. Di godersi un nipote. Di investire in qualcosa altro che avremmo voluto essere.

Alcuni proprio non ce la fanno a stare lontani dai luoghi e dalla professione, hanno nostalgia. Così, come fanno i medici che già per decreto possono restare in servizio fino ai 70 o 72 anni, cercano di tornare con varie collaborazioni da liberi professionisti.

Un altro infermiere se ne va, come tanti di altre categorie, nei giorni in cui in Francia sia gli operai che i professori d'Oltralpe protestano con violenza contro la riforma delle pensioni fortemente voluta dal presidente Macron per sanare i conti. Viene contestata da cittadini e sindacati la decisione di aumentare l'età pensionistica da 62 a 64 anni, anche se sarà graduale entro il 2030.

Secondo il nuovo sistema pensionistico francese, in parte simile a quello italiano, l'età aumenterà di tre mesi ogni anno e le pensioni minime aumenteranno a 1200 euro lordi al mese. Ci saranno condizioni penalizzanti per chi decide di lasciare il lavoro prima: soltanto con 65 anni di età e 40 anni di contributi si potrà andare in pensione senza tagli all'assegno mensile.

In altri Stati europei si va in pensione molto più tardi. In Italia il tetto è fissato a 67 anni, cinque anni in più. Forse i francesi - che sembra quasi un'altra rivoluzione mentre incendiano cassonetti, camionette della polizia e danno fuoco ai palazzi municipali – stanno scoprendo che, al di là della voglia di lavorare, esiste qualcosa di diverso rispetto al lavoro.

Che vivere significa godersi la vita quando la si può ancora godere, senza le limitazioni dettate dall'età e le restrizioni imposte dal mercato. A sessantadue anni forse era ancora accettabile, due anni in più vuol dire allontanare un momento della vita tanto desiderato.

Perché se da un lato è vero che il lavoro nobilita l'uomo, dall'altro è una sorta di schiavitù che liberamente accettiamo per avere un soldo per vivere bene. Si lavora insomma ogni giorno sperando di andare un giorno in pensione e nel frattempo, vivendo meglio che si può, si aspettano ferie e riposi. Non avere un lavoro è un dramma, averlo pare una condanna.

Nonostante le proteste sociali, è innegabile che le pensioni pesano sul bilancio pubblico. Pertanto, è risaputo da anni che occorre risparmiare sulla spesa previdenziale. In Francia e in Italia la copertura del sistema previdenziale avviene con i contributi dei datori di lavoro e dei lavorativi attivi, cioè occupati. Con l'invecchiamento della popolazione ci sono tante pensioni da pagare e per lungo tempo, visto l'aumento dell'aspettativa e della speranza di vita.

Si muore non da vecchi, ma da grandi vecchi

Si lavora oltre 40 anni, come previsto dalla riforma pensionistica, e si campa altri due o tre decenni. Un sistema insostenibile. A causa della forte denatalità sono sempre meno i giovani che, pagando i loro contributi, riescono a finanziare le pensioni dei loro genitori e nonni. Con la crisi dell'occupazione stabile, molti giovani occupabili versano sempre meno contributi o non li versano affatto se hanno un lavoro “in nero”. Una situazione inconciliabile.

Se la crescita zero continua, in Italia si arriverà paradossalmente ad un pensionato a carico di ogni disoccupato. In tutta l'Unione Europea sono infatti alti i tassi di disoccupazione e si assiste ad una crescita continua della spesa. La previdenza pubblica presenta ovunque problemi di finanziamento sempre maggiori. Gli aumenti dell'età sembrano inevitabili, come emerge dal rapporto OCSE 2021 sulle pensioni secondo cui tra 10 anni in Danimarca si andrà in pensione a 74 anni e in Italia a 71.

Il pensionamento è un provvedimento amministrativo con cui un lavoratore può andare o essere messo in pensione con una rendita permanente. Si tratta di un collocamento a riposo per aver cessato la propria attività dopo il raggiungimento di requisiti anagrafici e contributivi.

Nel corso degli anni sono state apportate numerose modifiche alle leggi che regolamentano la riforma pensionistica in Italia. Tra correttivi, norme transitorie e deroghe per specifiche categorie di lavoratori, l'Italia ha comunque messo in atto in anticipo le raccomandazioni UE.

Attualmente si va in pensione con la legge Fornero. La pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni con almeno 20 anni di contributi. Il nuovo Governo sta studiando nuovi modi per fare andare in pensione, anche anticipatamente attraverso varie opzioni. Con quota 41, ossia la pensione con 41 anni di contributi versati a prescindere dall'età.

La proroga di Opzione donna, 35 anni di contributi versati e 58-59 o 60 anni per tutte le donne a prescindere dal numero di figli e delle condizioni di fragilità legate ad invalidità o allo stato di disoccupazione. Con la proroga di quota 103, pensione a 62 anni e 41 anni di contributi. Con la proroga di Ape Sociale, ossia un'indennità erogata dall'INPS per alcuni lavoratori con almeno 63 anni di età e 30 di contributi senza dover aspettare i requisiti per la pensione di vecchiaia. Con contratto di espansione con messa in cassa integrazione straordinaria. Con l'isopensione ossia una pensione a carico dei datori di lavoro con 7 anni di anticipo con l'aiuto dell'azienda per cui si lavora. Sono previsti pensionamenti anticipati per i lavoratori precoci e con mansioni usuranti e gravosi.

Andare in pensione significa essere diventati vecchi. Si può entrare in crisi per la perdita della propria identità sociale, si può avere la sensazione di non essere più utile. Di non essere più nessuno. Andare in pensione è comunque un diritto del lavoratore, pertanto le condizioni devono essere dignitose e rispettose del contratto di lavoro che si è avuto.

Se tutti i lavoratori sono uguali per la legge, non lo sono tutti i lavori. Alcuni lavoratori arrivano alla pensione più esausti ed esauriti di altri per il tipo di mansioni che hanno svolto e per le condizioni. Se per tutti i cittadini la pensione è un imperativo, anche morale, per tutti gli Stati il sistema pensionistico è un problema sociale che diventa sempre più grave ed urgente e che necessita di decise riforme strutturali anche se impopolari.

In futuro si andrà in pensione a ottant'anni, l'anno dopo aver trovato il posto fisso (Maurizio Crozza)

La domanda non è a che età voglio andare in pensione, è a quale reddito (George Foreman)

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