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Infermieri

Social network: ma è proprio necessario postare in servizio?

di Francesco Falli

In questo secondo contributo dedicato al "rapporto professionale" con i diffusissimi social network, vorrei partire da alcune riflessioni forse superflue, ma che reputo indispensabili per inquadrare al meglio la questione. Qualcuno sostiene che il problema del rapporto con i social per un professionista sanitario non esiste, perché basta semplicemente applicare il buon senso: estendendo il concetto, allora diventa inutile anche il codice deontologico del professita sanitario (Infermiere e non solo) poiché – appunto- basta essere dotati di buon senso.

Infermieri abusi nell'utilizzo di Facebook può procurare un danno d'immagine

Foto infermieri in servizio

Purtroppo, abbiamo già numerosi casi italiani di "abuso" dei social da parte di Infermieri e, analizzando quelli più noti, è evidente che il buon senso è mancato: conviene perciò fare un piccolo ragionamento, utilizzando anche sostegni normativi e deontologici.

Premetto che resterò sulle generali, evitando di ricordare dove si sono svolti i fatti e i nomi dei protagonisti che, a proposito di uso "con cautela" della Rete, restano come un marchio indelebile sul web, nonostante esista un concetto (piuttosto elastico) noto come "il diritto all’oblio", che consente di rimuovere – su richiesta - tutti quegli articoli e citazioni che riportano fatti di cronaca ormai trascorsi, e che continuano a gettare ombre sui protagonisti, anche dopo… decenni.

Prima di esaminare insieme questi fatti, vale la pena riportare le cinque indicazioni che la Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI andò a varare il 3/12/2015, quando in Campania alcuni colleghi (ed alcuni chirurghi) si fecero ritrarre in corso di intervento chirurgico.

Sul caso citato, vorrei spendere un passaggio di natura professionale, frutto di una lunga militanza in sala operatoria: in particolare per l’Infermiere strumentista e per il collega fuori campo, la distrazione non aiuta certo nel mantenere aggiornato il calcolo del materiale impiegato…

Ecco le cinque indicazioni federali:

  1. Prima di postare informazioni online considerare la solidità delle ragioni per farlo, assicurarsi di avere il consenso dell’assistito, che la sua identità sia protetta e che le informazioni pubblicate online non ne permettano l’identificazione;
  2. Non diffondere mai attraverso i social media immagini o informazioni relative all’assistito che possano violare i suoi diritti di privacy e riservatezza;
  3. Non pubblicare, condividere o diffondere immagini, dati o informazioni dell’assistito acquisite nella relazione infermiere-paziente;
  4. Non esprimere commenti sugli assistititi anche quando gli stessi non possono essere identificati;
  5. Non acquisire immagini (fotografie, video) utilizzando dispositivi personali ivi inclusi i telefoni cellulari. 

Mi permetto di fare una sintesi molto pratica: basterebbe il primo, importantissimo passaggio. Molte volte nel rapporto con i social "ci scappa il dito" e la volontà di far vedere qualcosa supera il pensiero critico, la valutazione – appunto- richiamata da questa ferma e interessante indicazione, che potremmo riassumere così: "ma è proprio il caso di mettere on line la mia immagine con vicino questo signore con la pancia aperta?"….

Ma esaminiamo, come anticipato, alcuni episodi particolari

La rabbia: è capitato a chiunque di avere a che fare con pazienti difficili. Oppure, è capitato a tutti di avere una bruttissima giornata privata, quando avremmo volentieri evitato di passare ore al lavoro. E sempre più spesso ci sono situazioni lavorative difficili davvero, con carichi di lavoro pesanti. Ma, ahimè: non è accettabile scaricare sull’assistito le nostre questioni private, o insultare il malato se ci sono problemi organizzativi... Evidentemente, la collega che in Liguria descrisse in diretta sui social con frasi assai pesanti le sue assistite non fu, quella sera, molto lucida, né calcolò che stava preparando un potenziale autogol.

Ed al mattino, una persona che, come "amico" di Facebook aveva visione completa della sua bacheca, la consigliò di levare subito le frasi incriminate. Ma un’altra persona con analoga possibilità aveva già stampato, e inviato a vari destinatari, la schermata con gli apprezzamenti poco etici e per nulla deontologici.

Fu infatti la violazione di più di un articolo del codice, sia sul versante del rispetto dell’assistito, sia sul piano della dignità professionale, a costituire la base del procedimento disciplinare, intentato sia dall’azienda sanitaria, sia dal Collegio di appartenenza.

In anni lontani, questa collega si sarebbe limitata a una imprecazione, non raccolta da nessuno se non dai compagni di turno, alla chiamata del malato. Potendo contare sullo strumento social per "esprimere" i suoi sentimenti, non valutò che la potenziale platea delle sue frasi è ben più vasta della cucinetta di corsia, e fatta di contati diretti e indiretti.

Ed ecco – a proposito di buon senso- la semplice domanda che sorge leggendo il primo punto delle indicazioni federali: "…ma ci sono valide ragioni per scrivere su un social queste cose?"…

La superficialità: due casi nati in due rianimazioni. Una nel Nord Est d’Italia, in Friuli (anno: il 2009) ed una in Toscana (anno: il 2011). Nel primo caso una Collega appassionata del suo impegno ( e che mi ha ricordato emozioni lontane) decide, la sera, da casa, mentre si rilassa dopo un pomeriggio pesante ma ricco di soddisfazioni professionali, di condividere sui social la sua emozione.

Scrive di sentirsi molto felice e realizzata professionalmente, e piazza una foto di sé stessa nel reparto: un selfie. Peccato che sullo sfondo si distingua bene, benissimo, un degente, intubato e connesso a un respiratore. Così come nel caso toscano, la situazione si fa complicata per la (consueta…) violenta reazione dei media che immediatamente titolano cose abbastanza pesanti.

In questo caso mi colpì molto la inchiesta della Corte dei Conti friulana, che venne aperta per calcolare il danno di immagine che la vicenda portò (o avrebbe portato) alla sanità regionale…

Il secondo caso riguarda una terapia intensiva toscana dove alcuni Infermieri e una dottoressa (il Medico di guardia) in un turno notturno, senza mai abbandonare i loro pazienti, scherzarono fra loro, bendandosi con il materiale dell’ospedale e scattandosi selfie a ripetizione. Alcuni scatti dimostrarono anche che alcuni di loro stavano fumando in servizio; non nella degenza, ma nella cucinetta.

La questione montò – curiosamente, ma vale come "istruzione operativa"… - alcuni mesi dopo la pubblicazione sui social perché una cittadina, diventata per caso ‘’amica’’ sui social di una delle protagoniste, "frugò" nella sua bacheca e vide queste immagini. Scrisse inorridita al giornale locale e, di passaggio in passaggio (sindaco, governatore regionale, ministro della salute), si giunse al TG1, e alla inevitabile sospensione dal lavoro delle protagoniste, con diverse sanzioni.

L’ASL, nella emanazione del provvedimento, calcolò anche l’utilizzo "errato" di materiale sanitario (disperso) ed il mancato rispetto del divieto di fumo, oltre alla parte più prettamente deontologica.
Anche in questo caso, io per primo ammetto di avere scherzato spesso con i colleghi (ricordo – nel XX secolo, e dunque ormai prescritte!- in sala operatoria di Urologia le imboscate a base di Luan su maniglie, seggiolini dell’anestesista, estremi delle barelle….) pur senza avere MAI abbassato l’attenzione, scherzando sempre fra un malato e l’altro...

Eppure, come spiegare ai cittadini, che vedendo certe foto immaginano dei malati abbandonati e sofferenti, mentre nessuno li ascolta (così scrisse la signora), che questi professionisti non hanno ammazzato nessuno? Diventa davvero difficile, complicato, impossibile.

Attenzione: non minimizzo i fatti, che restano seri: e si tratta di un uso errato non solo delle bende di quella ASL, ma dei social, aggravato: proprio perché la condivisione delle immagini va ben oltre il fatto, e va molto oltre le capacità di capire il contesto di chi non conosce l’ambiente.

Queste cose non si devono fare : ma se una notte, per far passare le dieci o perfino le undici ore del turno notturno (benedetta Legge 161!!) fai un piccolo scherzo a uno dei tuoi colleghi della terapia intensiva, si arriva più serenamente al momento della terapia o dei parametri: ma se lo "pubblichi" e descrivi i fatti, e metti la foto di Mario, al quale hai versato la colla sulla sedia, sei automaticamente dalla parte del torto.

Il buon senso, appunto! Infine, e questo dovremmo ricordarlo sempre, mai come in questi casi si scatena la legge della "notiziabilità": secondo Herbert Gans, le notizie viaggiano di più (e dunque sono più appetibili) quando c’è un "rovesciamento di ruolo".

E pertanto, i sanitari che di notte non seguono il decorso delle patologie, non sono pronti all’assistenza, ma si bendano e fumano, rappresentano un evidente rovesciamento di ruolo: essi sono l’uomo che morde il cane, per citare una nota legge del giornalismo, e quindi sono da sbattere in prima pagina.

Converrà ricordarlo, la prossima volta che ci scappa il post in servizio: ma è proprio indispensabile?

Alla prossima e ultima sintesi, grazie.

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