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Testimonianze

Io, trapiantato. Diviso tra felicità e angosce

di M T

Maschio, 42 anni, ex fumatore, impiegato, trapianto di fegato in carcinoma epatocellulare in assenza di epatite. In una galassia infermieristica che tende sempre più convinta all'approccio medico al paziente, non potete immaginare la mia meraviglia quando, a dispetto di quanto detto durante le consegne sul nuovo paziente in ingresso, esso rispondeva al mio saluto con un semplicistico e scientificamente scorretto "Piacere, sono Mario".

Il trapianto visto con gli occhi del paziente

La dimensione umana, per non perdere il senso dell’assistenza

A Mario devo dire grazie. Grazie soprattutto perché ci ha dato un altro esempio di come la dimensione umana di ogni assistito rappresenti un elemento di primaria importanza fra i bisogni assistenziali.

Questi esempi ci permettono di non perdere di vista cosa siamo e cosa facciamo come infermieri, tra strumentazioni, monitor e carichi di lavoro schiaccianti.

La storia di Mario, chiuso in una stanza

Alle consegne si parlava giustamente di consulto psicologico. Il paziente era in isolamento funzionale per immunosoppressione post trapianto di fegato. Utile per evitare rigetto, ma rischiosa per la possibile proliferazione di infezioni.

Essendo un paziente che veniva da fuori regione, aveva pochissime visite e quando le aveva, circa una volta a settimana, esse erano permesse per qualche decina di minuti al massimo, per limitare al minimo il rischio di introduzione di microrganismi nella stanza.

A me però il sapere che dietro quella porta esisteva un paziente con il quale interagire per i 30-40 secondi della "consegna" della terapia (perché di fatto questo avviene in questi casi), non bastava più. E ritagliandomi 10 minuti dell'oberato turno di lavoro, mi attrezzai con tutti i DPI del caso ed entrai.

Il paziente era stupito che fossi lì per scambiare due parole, in assenza di altre necessità assistenziali e gli ci volle un poco per sciogliersi. Quando però questo accadde, si rivelò un fiume in piena.

Era il 2013 quando, per caso, intrapresi la via delle analisi che poi portò i medici a diagnosticarmi un carcinoma al fegato. Hanno dato la colpa al fumo, pensare che un pacchetto lo facevo durare una settimana. In famiglia mai successo niente al fegato, non ho mai bevuto granché e per il resto ho avuto una vita mediamente sana.

Lavoro in un'agenzia di assicurazione quindi hanno escluso malattie professionali. Niente, semplicemente doveva toccare a me. In autunno 2015 le analisi cominciarono ad andare molto male e io mi sentivo anche peggio! Col ricalcolo del punteggio, arrivai a 9 su 15 nella valutazione pre-trapianto. Ho passato mesi con il mal di testa.

Di quel periodo ricordo molto bene lo stato d'ansia. Non come quella che provo adesso. Era una corsa contro il tempo. Arrivavo spesso a interrogarmi, a chiedermi se stessi dando davvero valore al tempo, ad ogni singolo secondo.

Ero molto stanco, soprattutto a livello nervoso e al contempo odiavo dormire, perché lo vedevo come uno spreco di tempo. Avevo paura di non arrivare in tempo, quando invece era il fegato che doveva arrivare da me. Passarono Natale e Pasqua. Il mio compleanno. Mille altri momenti di sorrisi forzati. Un incubo.

A fine maggio mi chiamano e mi dicono che c'è un fegato per me. Che questo strazio era finito. Sembra che la storia finisca qui, ma invece diventa semplicemente un nuovo capitolo.

Prima e dopo il trapianto ti spiegano tutto quello che dovrai affrontare. E devo dire che, se hai un minimo di coscienza, la senti la responsabilità del nuovo fegato. La senti, perché altri non lo hanno avuto e altri non lo avranno mai. Senti la morte che si allontana e ne sei felice, ma sai che si avvicina a qualcun altro. Sarò troppo sensibile forse, sarà la malattia. Però la cosa mi colpisce ogni giorno.

Arriva poi il momento in cui fai riabilitazione. Degenza riabilitativa. In pratica passi le giornate chiuso in una stanza, a guardare il mondo da un oblò. Magari invece questa porta non ha neanche l'oblò. Ogni tanto entrano soggetti di cui vedo solo la forma del corpo e gli occhi. Questo serve per evitare che prenda infezioni, lo capisco. Ma cercate di capire anche voi come possa essere passare le settimane chiuso in camera. Fisicamente ancora debilitato. Per fortuna ho il cellulare che mi permette di sentire la mia famiglia.

Ho spesso paura che questo nuovo pezzo di me si possa ammalare di nuovo. Questo si aggiunge alla paura che mi avete insegnato, quella di qualunque cosa possa non essere sterile. Il pensiero che l'ambiente sia mio nemico mi fa sentire come se camminassi su gusci d'uovo. Mi sto abituando, ma vedere il pericolo in qualsiasi oggetto possa cadermi per terra è angosciante.

Col trapianto ho risolto un problema, ma ne sto vivendo un altro. Adesso la malattia è uscita da me, ma si annida in qualunque cosa esista intorno a me. So che sono pensieri esagerati, ma la solitudine, si sa, amplifica in negativo qualunque pensiero.

Infermiere

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