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Ciò che rende una persona sono le altre persone

di Monica Vaccaretti

Ho incontrato una parola bellissima. Ci sono lingue straniere che nel vocabolario custodiscono parole che contengono, in una manciata di sillabe, frasi complete che esprimono concetti semplici e veri di grande profondità. La parola, strumento del linguaggio, è la manifestazione o la comunicazione di un pensiero, di un sentimento, di una nozione o di un'azione. In una parola, anche breve, ci sta davvero tanto.

Ubuntu, significa: la qualità dell'essere umano

L'empatia profonda è un giusto istinto che va oltre questi meccanismi cognitivi, una intuizione conscia ed inconscia, un'azione virtuosa.

Indagando sull'etimologia del termine scopro che secondo una tradizione dell'Africa orientale, antica e suggestiva, ciò che rende una persona sono le altre persone. Alla gente di quei posti piace dire manka ulunu ulunu ulunu. Mentre mi diletto a ripetere questo scioglilingua pieno di calore come un esercizio di mindfulness, la mente mi riporta, forse per associazione psicocognitiva, un'altra meravigliosa parola nostrana, empatia.

Rifletto che in quanto esseri umani abbiamo tutti una natura empatica ma talvolta - ed appare più evidente negli ultimi anni tanto funesti e troppo social - l'empatia che spesso diciamo e sentiamo di avere trova invece il tempo che trova. È una parola del momento, occasionale. Si posa sul cuore di tutti, ma è temporanea.

La parola che caratterizza così tanto la nostra intima natura non va oltre la parola che esprimiamo. Se l'empatia resta sentimento provvisorio senza muovere in qualche modo all'azione, finisce con l'affievolirsi spontaneo del moto d'animo che ci scuote ma che non può durare per sempre.

È leggera la nostra empatia di fronte ai clandestini che ogni estate salpano dalle coste africane annegando tra i flutti prima di raggiungere le nostre isole. È volatile la nostra empatia di fronte ai rifugiati siriani che abbiamo lasciato e dimenticato da qualche parte nelle foreste ai confini d'Europa, dopo esserci tanto indignati per la loro sorte

Dov'è finita la nostra empatia dopo 114 giorni di guerra in Ucraina? Si è arenata distratta in qualche spiaggia. È sfuggente la nostra empatia verso chi sta soffrendo fame, sete e miseria per via della crisi del grano e dei cambiamenti climatici. Talvolta l'empatia non è tanto presente neanche nei reparti d'ospedale quando, complici la stanchezza e l'insofferenza, troviamo operatori sanitari che sembrano essere presi da altri pensieri, perdendo talvolta - oltre alla proprietà intrinseca ed estrinseca dell'empatia - anche la gentilezza. Kindness, dicono gli anglosassoni. To be a human kind.

Essere un essere umano è tutto ciò che dobbiamo essere. Un essere gentile

Generalmente consumiamo l'empatia quel che tanto che ci basta per emozionarci, anche intensamente e poi passiamo ad altro, come si fa con il consumo di beni ed affetti. Frettolosamente. Abbiamo preso l'abitudine, tutti, di comportarci così, almeno in questa parte di mondo occidentale. Dimentichiamo persino quello che abbiamo provato, empatizzando.

Se l'empatia è parte integrante della nostra dimensione umana dovremmo averne tanta in corpo ed averne cura, allora dove la perdiamo? Perchè esauriamo così presto una delle nostre migliori qualità? Dove finiscono le persone che ci rendono persone, quando se ne vanno da noi, dopo averle portate dentro e accanto?

Viviamo con lacrime ed orrore tanti scenari drammatici di violenze e disastri che ci arrivano in casa e tante notizie che ci fanno stare male. Condividiamo le foto sui social media, alcuni piangono un po' di più. Altri donano soldi quando si organizzano raccolte per gli aiuti umanitari. Ma poi con disinvoltura passiamo ad altro. Si passa tranquillamente dalle immagini di guerra a Mariupol e dintorni alla foto del nostro gatto e del piatto della cena al ristorante. Si passa alla nostra vita, come se niente fosse. Come se non potessimo farci niente per il resto per cui abbiamo provato sinceramente empatia.

Prendersi cura degli altri è ciò che ha reso unica la nostra specie

Lo sostiene Samuel Veissiere, ricercatore Professore di Psichiatria Sociale e Tranculturale presso il Dipartimento di Antropologia alla McGill University a Montreal, in Canada. In un articolo pubblicato nel 2016 sulla rivista La psicologia oggi, il Direttore del programma “Culture, Mind and Brain” afferma che c'è un lato oscuro nella nostra natura empatica: sondando il nucleo di ciò che ci rende umani troviamo anche una terrificante violenza, un'insensibilità e un’ignoranza di cui tutti siamo capaci. La nostra natura è unica e nutrita di altruismo, cooperazione e cura dei vulnerabili. E1 questa la parte, profondamente preziosa, dell'umano in ciascuno di noi.

Secondo l'autore la nostra evoluzione fisiologica, cognitiva, linguistica, culturale, sociale e tecnologica non è guidata dall'interesse personale e dalla competizione ma dall'empatia e dalla collaborazione. Senza l'aiuto reciproco nelle nostre interazioni quotidiane noi non saremmo gli esseri empatici, intelligenti e neuroplastici che apprendono per crescere e migliorarsi. La nostra storia evolutiva è fatta di educazione collettiva dei bambini, caccia e raccolta cooperativa, cura degli anziani e dei malati e condivisione libera delle informazioni.

È un miracolo empatico che abbiamo riprodotto in ogni generazione. Che ognuno di noi sia in grado di camminare, pensare, parlare e immaginare in una o più lingue e navigare in mondi sociali complessi è una testimonianza di questo miracolo collettivo. Ciò è reso possibile grazie a coloro che vivono oggi con noi e a tutto ciò che è venuto prima di noi. Pertanto non potremmo mai essere noi stessi senza tutti gli altri nel tempo e nello spazio.

L'autore spiega che sin dall'antichità, prima ancora di coltivare piante ed addomesticare animali, i Neanderthal mantenevano in vita i loro anziani, che non erano di alcun beneficio economico per il gruppo, attraverso amore e cura gratuiti. I nostri antenati hanno sostenuto tali costi liberamente e facilmente per pura empatia, scrive Veissiere.

Perché gli anziani ci aiutano ad essere ciò che siamo

Secondo alcuni filosofi e teorici dell'evoluzionismo, la nostra specie è sopravvissuta, evoluta e prosperata grazie ai continui sforzi collettivi per garantire che tutti ricevessero la loro parte e fossero mantenuti in vita, indipendentemente dal loro contributo individuale. L'egoismo e l'indifferenza, tratti caratteristici della moderna società capitalista ed individualista, sono problemi sociali storicamente specifici che emergono in quelle società stratificate che dipendono dal denaro.

Lassù nel nostro paese siamo umani e poiché siamo umani ci aiutiamo a vicenda, è una frase bellissima, riportata dall'autore, che chiarisce la nostra natura e ciò che la guida. Le nostre relazioni quotidiane, ovunque nel mondo, si fondano pertanto sull'impulso intrinseco ed automatico di aiutare un umano simile.

Come dare un senso allora, si chiede l'autore, a orrori come il genocidio, il razzismo, le croniche disuguaglianze sociali e le crisi umanitarie che nascono dalla ferocia dell'uomo? Dove abbiamo sbagliato? Perché ci siamo allontanati dal valore dell'empatia? Perché abbiamo creato società divise e competitive? Ci siamo standardizzati ed abbiamo modellato socialmente i nostri cervelli, menti e corpi conformandoci e perdendo la spinta intrinseca ad aiutarsi, imparare ed insegnarsi a vicenda liberamente e con spirito gratuito.

Due livelli di empatia

Secondo lo psichiatra e antropologo ci sono due livelli di empatia, quella profonda e quella superficiale. L'empatia richiede la capacità di mettersi nella prospettiva di qualcun altro. Occorre prendere la prospettiva di una persona per intuire il suo comportamento. E lo sappiamo fare, perché saper leggere la mente è qualcosa in cui gli esseri umani sono straordinariamente abili.

Secondo la psicologia sociale, ci comportiamo secondo il modo in cui ci aspettiamo che gli altri si aspettino che ci comportiamo. Si tratta di un'operazione cognitiva molto complessa che siamo in grado di eseguire senza sforzo cosciente in tutte le azioni quotidiane, dal saper come e dove sedersi su un autobus o in sala d'attesa all'ignorare i senzatetto e provare brividi xenofobi. L'autore sottolinea come le nostri menti sociali abbiano allora un aspetto inquietante: se la modalità di attenzione collettiva è quella di insensibilità ed ignoranza spezzare questo atteggiamento è contro intuitivo e molto difficile.

Tutti noi sperimentiamo l'empatia superficiale quando ci sentiamo troppo timidi ed insignificanti a tal punto da non intervenire. Capita quando il sentimento è genuino e si vorrebbe intensamente aiutare ma l'impulso pro sociale resta solo un impulso dettato dalle regole di umana convivenza. Quando proviamo empatia superficiale siamo infatti governati da regole etiche e sociali e proviamo soltanto un'attrazione ipnotica verso una situazione o una persona. Questo avviene perchè i nostri stili di pensiero, movimento e sentimenti personali sono vincolati da un contesto culturale più ampio.

L'empatia profonda invece è un giusto istinto che va oltre questi meccanismi cognitivi, una intuizione conscia ed inconscia, un'azione virtuosa. L'empatia profonda è un'intuizione automatica e buona che non resta una risposta automatizzata e dettata dai regimi anonimi di attenzione della nostra cultura. È una risposta che nasce dall'impegnativo lavoro di riflettere sull'esperienza e decidere di agire.

Il lato buono della natura umana ci fa quindi scoprire che possiamo fare molto se non restiamo a guardare. Fare del bene inizia semplicemente con il trovare, onorare ed agire in base al lato buono della nostra empatia, quello che ci fa desiderare di offrire il nostro posto in metropolitana alla donna incinta o che spinge all'impulso di confortare il senzatetto che piange sul marciapiede o che ci fa scegliere di essere infermiere. L'empatia vera e non automizzata inizia con un esame critico e continuo dei nostri valori e della nostra attenzione che modellano le nostre relazioni con le altre persone, conclude Veissiere.

L'articolo si conclude con un’analisi sociale. La nostra cultura occidentale ha promosso tipi sbagliati di empatia, intesa come un valore automatizzato. Ci sono culture che hanno davvero reso l'orientamento verso l'altro un principio sacro ed insegnano com'è essere umani. La tradizione vera della cura e dell'ospitalità verso gli estranei e gli stranieri è stata codificata, onorata e mantenuta viva in molti sistemi morali e sociali diversi dal nostro. Nell'occidente capitalista il nostro senso più profondo del sé è stato plasmato sulla falsa nozione che i problemi individuali siano distinti dai problemi sociali. Sono la nostra cecità geopolitica e la nostra amnesia storica che ci rendono contenti, egoisti ed ignoranti. Diamo per scontati i nostri privilegi dimenticando ogni giorno che dobbiamo la nostra vita all'umanità e al pianeta. Pensiamo che sviluppare ed esprimere un'empatia profonda sia socialmente controintuitivo farlo. Ci limitiamo a quella sperficiale automatizzata. Che dura quel che dura.

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