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Editoriale

Indossare maschere per incontrare volti

di Sara Di Santo

L’assistenza infermieristica è un’arte - ha brillantemente intuito Florence Nightingale - ed è un’arte che passa attraverso i corpi e la loro cura. Non è così distante da essa il teatro che, con la presenza fisica dell’attore, fa del corpo lo strumento comunicativo per eccellenza.

Infermieristica Teatrale il progetto che fonde tra loro due arti

Andrea Filippini

Andrea Filippini, padre dell'€™Infermieristica Teatrale.

Se Florence Nightingale definisce l’Infermieristica come la più bella delle arti belle, perché ha a che fare con il corpo umano, tempio dello Spirito di Dio, il progetto Infermieristica Teatrale crea una connessione fra assistenza infermieristica e teatro, senza decretare la superiorità dell’una sull’altra.

L’Infermieristica Teatrale è un’arte derivante dalla miscela di due arti belle, il Teatro e l’Infermieristica. Si viaggia nell’Infermieristica attraverso il Teatro, giocandoci con l’obiettivo di far sì che chi cura e chi si prende cura delle persone possa trovare sempre più strumenti di relazione.
La relazione come cura, dunque; una relazione che parte dalla gestualità del corpo del teatrante e giunge a divenire tocco che si prende cura del corpo sofferente.

La condizione di malattia rende fragili gli animi, non solo i corpi e l’infermieristica è un peregrinare privilegiato nella vastità delle emozioni umane; saper essere un Infermiere significa incamminarsi verso la costruzione di ponti lastricati di esperienze vissute e formanti per incontrare l’altro, il suo dolore e le sue potenzialità. Incontrare l’altro, poi, significa inevitabilmente incontrare anche sé stessi, cosa che con il teatro accade quando ci si mette in gioco indossando maschere che insegnano ragioni e relazioni prima sconosciute.

Andrea Filippini, infermiere, attore e regista teatrale, ha dato forma al connubio tra le sue due passioni nel 2005, stilando dapprima una tesi sperimentale sulla formazione “artistica” degli infermieri e sulla ricerca del filo rosso che unisce l’arte infermieristica a quella teatrale e organizzando, poi, una serie di laboratori teatrali destinati agli infermieri e accreditati dal sistema Educazione Continua in Medicina (Ecm).

Come si legge in un’intervista a cura della collega Flavia Giampetruzzi tutto nasce dall’esperienza personale di Andrea, che è stato infermiere per vent’anni, tra ambulanze, pronto soccorso ortopedico, l’Afghanistan – in un ospedale di guerra – e poi nel reparto di oncologia pediatrica al Sant’Orsola di Bologna.

I laboratori di infermieristica teatrale organizzati da Andrea e dal suo team di colleghi-collaboratori si suddividono in una parte di introduzione teorica alla materia e in una seconda parte dedicata all’esercizio di tecniche prettamente teatrali: respirazione, propriocezione (capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio), vocalizzazione, concentrazione, improvvisazione singola e di gruppo, immedesimazione in un copione.

Il teatro è una sublimazione (esaltazione) della vita, permette di donare le proprie emozioni per ritrovarle in chi fruisce dello spettacolo; la specificità di questi laboratori teatrali consiste nel fatto che l’infermiere, praticandoli, rimane sempre comunque collegato e calato in ciò che si potrebbe vivere in un contesto di cura reale, dal punto di vista lavorativo ed esperienziale.

Non c’è una gran differenza tra il teatro e l’ospedale - spiega Filippini - in ospedale conosci le persone che si mostrano senza barriere. A teatro sei costretto ad interpretare una parte a metterti nei panni di un altro, a capirne le motivazioni per renderlo al meglio. In entrambi i casi hai a che fare con l’essere umano e con le sue emozioni.

Il teatro per l’infermiere, dunque, diventa strumento di relazione e conoscenza di sé stesso e dell’altro con l’obiettivo di rinforzare il “to care” ancora troppo subalterno, oggi, al “to cure”.

Prendersi cura della persona significa garantirle le prestazioni tecnico assistenziali di cui ha bisogno, ma significa anche rendersi conto di quanto il corpo dell’operatore possa esprimere attraverso il non-verbale e quanto possa aver valore, in determinati momenti, contemplare un silenzio piuttosto che il tentativo goffo di riempirlo di parole vuote.

Attraverso i gesti assistenziali l’infermiere instaura una relazione terapeutica con l’assistito, il quale non è mai solo corpo e non è nemmeno la semplice somma di corpo e anima (o sentimenti, che dir si voglia); la trama di connessioni che si generano nei contesti di cura è molto più fitta di così e l’esercizio teatrale aiuta l’infermiere a “stare nelle cose”, a rispettare i tempi (imparare i tempi teatrali permette di riconoscere quelli dell’assistito), a conoscere e curare sé stesso per meglio curare l’altro, a giocare e usare il teatro alla ricerca di un arricchimento personale, un sano atto di egoismo umanitario.

Nella pratica – continua Filippini - il peso dei soldi si sente molto di più e le emozioni vengono relegate a soggetti esterni; per ridere i clown, per piangere volontari che dedicano ascolto e si immagina l’infermiere come colui che deve semplicemente assistere il corpo malato. Non funziona così. Gli infermieri che lavorano a stretto contatto con le persone ammalate sanno quanto oltre alla iniezione o alla fasciatura, sia di conforto una parola, una battuta o, se necessario, anche il silenzio.

In un contesto sanitario sempre più mutilato da politiche di spending review e spesso al limite del collasso, questa occasione formativa appare come una ventata d’aria fresca e innovativa, forte della tradizione che il teatro può vantare.

La ricerca del bello è da sempre un richiamo irresistibile per l’uomo e formare dei professionisti della salute affinché abbiano cura di sé per implementare la cura dell’altro, affinché indossino maschere per esercitarsi a riconoscere i veri volti, sarebbe senz’altro una cosa bella.

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