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Assistenza Infermieristica

L'infermiere nell'Alzheimer, una riflessione

di M T

La persona con Alzheimer è un paziente molto complesso da assistere, la cui dignità è spesso compromessa dalla perdita del proprio status sociale. L’assistenza a tale patologia non deve mai prescindere da una profonda riflessione sul ruolo di operatori della salute né tantomeno dimenticare che, anche e soprattutto nella malattia, è l’assistito colui che deve essere valorizzato. Vediamo qualche spunto per una riflessione utile e feconda in merito.

Paziente con Alzheimer

L'assistenza in Alzheimer richiede una riflessione profonda da parte dell'operatore

Alzheimer, chi meglio dell’infermiere al fianco del paziente?

Fonti popolari veterinarie non scientifiche individuano l'intelligenza dei pappagalli paragonabile a quella di un bambino di 2-4 anni, a seconda della razza.

Secondo invece un'applicazione dei test relativi alla misurazione dell'intelligenza emotiva, ipotizzata e sostenuta per la prima volta dai professori P. Salovey e J.D. Mayer, i pappagalli sviluppano un'intelligenza emotiva pari a quella di un bambino di 12-24 mesi, quantificazione discriminata, ovviamente, sempre in base alla razza.

L'intelligenza emotiva nei pappagalli influenza pesantemente lo stato di salute e la progressione e il mantenimento dello stesso nel tempo.

Avete mai provato a sentire il canto di un inseparabile (nome che già la dice lunga sulla sua natura sociale) rimasto solo nella sua gabbietta?

Non particolarmente conosciuta ma al contempo non particolarmente rara da osservare vi è la sindrome da autodeplumazione, l'autolesionismo a carico di piume e penne. Le motivazioni trovano sempre origine nella distruzione della dimensione sociale del pennuto che ne soffre.

A questo punto ipotizzo un certo senso di smarrimento subentrante in colei o colui che legge. Voglio rassicurarvi sul fatto di essere ancora su Nurse24.it e non su pets24.it (sito che oltretutto non esiste, ho controllato). Per rimanere a tema zoologico, dal bruco nasce la farfalla, bella o brutta che sia, ma occorre concedergli il tempo necessario.

La semplice domanda a cui adesso voglio arrivare è la seguente: se riusciamo a capire il problema per questi meravigliosi uccelli e interveniamo in merito, come può essere possibile non farlo per delle persone che soffrono di Alzheimer?

L'alter ego intelligente di questa domanda, invece, si interroga sulla disponibilità, sulla sostenibilità e appropriatezza di interventi mirati alla più possibile preservazione dello stato identitario della persona affetta da Alzheimer.

Attingendo e subito abbandonando le famose Five W questions inglesi, pilastro della logica costruzione giornalistica di articoli di cronaca, partiamo dalla "First W", ovvero “Chi?” (in inglese “who”).

Una dimensione identitaria alterata in un soggetto affetto da una qualsiasi malattia è conseguenza, se vogliamo, di possibili alterazioni in almeno sei degli undici modelli funzionali della salute individuati da Marjory Gordon.

Modello di percezione e gestione della salute, Modello di percezione di sé-concetto di sé, Modello di ruolo-relazione, Modello di sessualità-riproduzione, Modello di coping, Modello di valori-convinzioni. Nel caso di malattia di Alzheimer si aggiunge l'alterazione del Modello percettivo-cognitivo.

Il professionista che per ruolo, evidenza, preparazione e competenza può intervenire in maniera maggiormente appropriata rispetto all'insieme complessivo di queste alterazioni è l'infermiere. Senza alcun dubbio.

L’infermiere e l’assistenza in Alzheimer

La maggior difficoltà che incontriamo, sia nella fase dell'individuazione di interventi sia nella fase della loro attuazione, riguarda la sostenibilità lavorativa. L'organizzazione del personale e del lavoro non permette spesso di disporre del tempo necessario ad un'attività mirata e centrata sul singolo ospite.

La tendenza quindi porta, nel migliore di questi casi, all'attuazione standardizzata di interventi preconfezionati, risultanti da osservazioni spesso grossolane, sbrigative e imprecise.

Ma dato che, da che mondo e mondo, non vedremo mai un intagliatore lavorare con l'accetta, i risultati sono spesso insoddisfacenti a fronte di interventi che mancano di aderenza.

L'elemento “tempo” viene troppo spesso valutato soltanto come elemento necessario all'attuazione fisica di processi produttivi e non come un investimento su studio e ricerca di metodi più appropriati rispetto ai bisogni osservati.

Stiamo bene in guardia del fatto che mentre l'industria ha imparato a ricercare ed evolversi anche in direzione dell'ottenimento del minor spreco di risorse possibili, in ambito di servizi questo processo è molto più lento e arretrato.

È d'obbligo, in una pessimistica osservazione popolare della stasi tipica dei nostri giorni, controbattere però con un controcorrente e parafrasato "eppur si muove".

Riguardo questa standardizzazione di interventi nasce una logica provocazione. L'assistenza alla demenza, come anche altre, ed il suo trattamento, non si ispirano esclusivamente a codificate reazioni lineari. Il classico A+B = C non è attuabile.

Non vuol dire che non esistano processi studiabili e riproducibili, magari con valenza a largo spettro; ma la bellezza intrinseca e affascinante di questa terribile malattia sta proprio nella sua dissociazione dalla chimica, dalla logica spiccia. Nella sua dissociazione dalla semplificabilità (algebricamente parlando) del rapporto causa-effetto.

In prima fase, per peccato di altezzosità. L'uomo, inteso come essere e non come organismo, ha dimensioni dalla complessità nemmeno paragonabili ad una semplice reazione chimica. La psicologia, la psiche, l'emotività.

La correlazione è scientificamente provata e non si discute, ma in quale senso avviene il rapporto tra emozioni e ormoni o neurotrasmettitori?

Pensiamo davvero che il nostro umore sia schiavo del livello di ossitocina, per non dire della serotonina o di altro? La chimica farmacologica è eccellente nell'inibire, ma ancora scarsa nel creare stati emotivi. Per fortuna, oserei aggiungere.

Tremo al pensiero di medicinali in grado di creare stati di felicità (non euforica), di serenità o di benessere attivo. Fingere per fingere, preferisco ricorrere al caro vecchio sorriso superficiale, come quando incontri una tua ex che ti chiede come stai. Rifiuto e vado avanti, come nel programma a premi con i pacchi.

In seconda fase, invece, proprio nel rispetto della persona che assistiamo. Sarebbe inutile chiamarla per nome se osservandola vedessimo soltanto un meccanismo algebrico di elementi ed effetti patologici. Questo, oltre che essere in contrasto con il nostro codice deontologico, è umanamente disprezzabile. Capire quanto esso sia contro la dignità della persona non necessita di altissimi livelli di sensibilità.

Parliamo di trattamenti spesso sterili o non apprezzati dal paziente. La costrizione alla partecipazione della vita della sala tv, la costrizione alla celebrazione del compleanno di un altro ospite, la costrizione a bere all'ora dell'idratazione e al non bere fuori da quell'orario.

La dignità, scusatemi, è un'altra cosa

Mani dell'anziano

Il paziente con Alzheimer va assistito anche e soprattutto sul lato umano.

Il rispetto della dignitosa libertà di partecipazione e non partecipazione non può essere calpestato.
Parliamo di modus operandi tipici di strutture che esistono e che contrastano stridendo con quelle strutture che invece adoperano protocolli evoluti e intelligenti. Gli infermieri che operano in queste strutture spesso non sono nemmeno interpellati o messi in condizione di poter esprimere le proprie perplessità o proposte.

Esistono interventi mirati al reale soddisfacimento dei bisogni scaturenti da un'alterazione dello status identitario della persona con Alzheimer? "Ma parla come magni!", direbbe qualcuno, anche piuttosto a ragione.

Ci riprovo: è possibile intervenire a difesa dell'identità della persona con Alzheimer? La risposta, ovviamente positiva, genera però a sua volta un'altra alterazione identitaria.

Più o meno intensa, più o meno assordante. Un'alterazione nell'identità dell'infermiere. Di me, di te, di tutti coloro che fanno questo lavoro con passione.

È corretto ciò che faccio? È appropriato? È utile? Solo un piccolo seme. Un'inezia da sotterrare. E va bene così.

Ma se invece la propria coscienza, la propria sensibilità nascosta, la propria passione non ce lo permettono, nascono dei germogli da questa inezia. E quando dalla terra spuntano le prime cime di questa nuova piantina, le domande che ci porremo saranno ancora più decise.

È questo che voglio essere? È questo che vorrei fosse l'infermiere di un mio genitore?

Infermiere

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