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SLA, una battaglia eroica che sai già di perdere

di Monica Vaccaretti

Di anno in anno la lista dell’elenco dei compleanni si allungava di speranze e si accorciava di aspettative. Mi scontravo con la realtà dei fatti e la progressiva perdita dei motoneuroni rimasti. Quando morivano si spegneva una parte di me. Black out. Corto circuito. Lampadina fulminata. Senza corrente. Senza contatto. Nessun ricambio. Questa è la storia di Jack, che ha la SLA e la coscienza di ciò che ha perso e la consapevolezza di ciò che è diventato sono un pesante fardello da portare su spalle inermi e irrigidite. È una battaglia eroica che sa già di perdere, ma che non per questo smette di combattere.

Una voce in silenzio. Sono Jack e ho la SLA

Un uomo giace immobile e muto in una stanza in penombra. Era uno splendido quarantenne, Jack, finché la malattia non lo ha acchiappato. Con altrettanta spietata fretta la progressione dei segni e sintomi lo ha costretto su una sedia a rotelle e poi lo ha inchiodato sul letto.

Fosse almeno il letto di casa. No, quello ha dovuto lasciarlo per non essere di peso alla famiglia e ha trovato ospitalità e fissa dimora in un centro di lungodegenza specializzato con personale sanitario qualificato che lo accudisce notte e giorno.

Eccomi qui, anche oggi. E ancora vivo. E vegeto. Come si dice, quando si sta bene, pensa l’uomo appena si sveglia dopo una notte agitata. L’ironia cinica non lo ha abbandonato alla vigilia del nuovo anno.

Può solo pensare, la voce è muta, non ne ricorda neanche più la tonalità. Persa, come del resto tutto il suo corpo, nel corso dei tanti giorni seguiti alla diagnosi infausta. SLA. Una sigla che mette paura.

Il nome per esteso incomprensibile. Sclerosi Laterale Amiotrofica. Gli è rimasta solo la mente e questa se la tiene stretta. Non ha intenzione di lasciarsela rubare facilmente. Oltre al cuore che ancora batte, oltre al suo animo che ha ancora controllo sugli stati emotivi, oltre ai cinque sensi che ancora sentono, la mente è l’ultimo organo che gli è rimasto e funziona discretamente. Per lo meno lo tiene collegato al mondo che gli gira intorno.

Fintanto che avrà respiro lotterà, anche senza forza muscolare, anche con il solo potere degli occhi. Ma questo ancoraggio vigile è una sofferenza che non ha parole per essere descritta appieno.

La coscienza di ciò che ha perso e la consapevolezza di ciò che è diventato sono un pesante fardello da portare su spalle inermi e irrigidite. È una battaglia eroica che sa già di perdere.

Muove gli occhi a destra e a sinistra per cogliere la luce del nuovo giorno che timida, per non disturbarlo, penetra soffusa dalle fessure delle tapparelle grigie che si aprono su Vicenza. La testa resta immobile sul cuscino umido di sudore. La stanza ha bisogno di essere arieggiata. Lui ha bisogno di essere rinfrescato e pulito.

Oggi è il mio compleanno. Ed arriva Freddy con la famiglia. Vogliono festeggiare con me. Faremo un festone, pensa ironico. In fondo però è contento di questa visita del cugino. È un brav’uomo, non si farebbe tutta questa strada da Vicenza, ogni quindici giorni, per rinchiudersi qua dentro con me se non mi volesse un po’ di bene. E viene tutti gli anni, da quando son qui. E ci porta pure tutta la famiglia, ogni tanto. Un grande, il mio amico Freddy.

Infermiere, loro mi fanno sentire preso in carico

Le infermiere entrano per le cure igieniche. Trova umiliante questo rito di abluzione mattutina.

Ma sono professionali e grazie a Dio ci sono, pensa mentre lo girano sul fianco per insaponargli la schiena, lo rigirano dall’altra parte per vestirlo, lo rimettono supino per igienizzargli l’inguine.

Cambiano le lenzuola, gli stropicciano il cuscino, lo pettinano e gli somministrano, oltre all’idratazione endovenosa e alla terapia nutrizionale prevista per oggi, un goccio del suo profumo dietro le orecchie.

Un regalo gentile, non richiesto con gli occhi, ma che apprezza visto che aspetta ospiti. E non gli hanno messo un pigiama pulito, ma pantaloni nuovi di vellutino e una morbida felpa colorata, quella che la moglie gli ha regalato l’ultima volta che è passata.

Le infermiere hanno buon gusto nella scelta degli abbinamenti. Mi sento proprio preso in carico, pensa mentre assume la terapia. Dacci oggi il nostro Riluzolo quotidiano.

Nell’attesa di veder entrare il sorriso buono di Marina, l’allegria dei due giovanotti, la complicità di Freddy e di stappare un Prosecco di Valdobbiadene, Jack fa un giro dentro i suoi pensieri. Parla tra sé. Calendarizza i suoi progetti per il 2019. Come faceva un tempo sull’agenda che la casa editrice gli regalava ogni Natale, quando aveva ancora un lavoro.

Per quest’anno, diciamo pure, mi impegno a restare vivo. E salvare la mente, prigioniera in questo corpo, salvaguardando i motoneuroni superstiti, così che almeno non diventi pure demente. È raro, ma con la fortuna che mi ritrovo addosso… E che mi resti viva la volontà di rapportarmi agli altri. È a questo che servono le visite di Freddy. Lo sa lui, lo so io.

Ripercorre gli elenchi dei trascorsi compleanni. Dieci anni son passati. Al pensiero un brivido gli scorre lungo la schiena. Questo lo sente. Almeno il brivido corre veloce lungo il corpo fermo e gli ritorna in testa.

Il buon proposito del compleanno 0 della malattia era stato aumentare il movimento quotidiano, nonostante la lenta impercettibile sensazione di perdita di forza nelle gambe e di energia. Rialzarsi se inciampavo e uscire di casa a fare due passi al parco ogni giorno.

Il buon proposito del compleanno 1 era stato assumere regolarmente il Riluzolo, per rallentare la corsa della malattia, ma non la mia voglia di andare avanti e di continuare la mia vita. Presentarmi regolarmente alle visite mediche. Accettare la degenerazione.

Poi, di anno in anno, la lista dell’elenco dei compleanni si allungava di speranze e si accorciava di aspettative. Mi scontravo con la realtà dei fatti e la progressiva perdita dei motoneuroni rimasti. Quando morivano si spegneva una parte di me. Black out. Corto circuito. Lampadina fulminata. Senza corrente. Senza contatto. Nessun ricambio. Man mano che i neuroni morti poi si indurivano, si induriva anche il mio cuore e diventavo rabbioso. Lo sono ancora, incazzato.

Prima la difficoltà ad articolare la parola e a formulare una frase, poi ascoltare una voce estranea che usciva da me ma non era più la mia, per il motoneurone inceppato sulle corde vocali

Cercare di non sbavarmi addosso come un vecchio bevendo un sorso d’acqua e di non soffocarmi con la minestra, per il blocco del nervo cranico. Masticare lentamente per non affaticare i muscoli della bocca, già sfiancati al primo boccone.

Che pasti interminabili e snervanti, letteralmente. Accettare la Peg, firmare il consenso informato per continuare a mangiare pasti sostanziosi, anche per altra via e non continuare a dimagrire. Continuare ogni giorno ad esercitarmi nella scrittura, come esercizio di fisioterapia, per non perdere la mia capacità di disegnare e di esprimermi. Anche senza la parodia della mia voce. Questa è stata la regola numero uno, salvaguardare il più a lungo possibile la mia arte, che è davvero tutto per me.

Nel 2016 ho perso entrambi i motoneuroni. Al tappeto. Ma non messo k.o. Allettato. Ma ancora respiro. Prossima tappa, accettare un buco in trachea per far entrare forzatamente aria nei polmoni, quando il diaframma e i muscoli intercostali si indeboliranno sino a perdere il loro moto vitale. Farò anche questo.

Motoneuroni bloccati, vita bloccata

Pensa al suo blog. Che tace. Chiuso. Per malattia. Era una finestra su cui affacciarsi virtualmente fuori e comunicare con la forza della parola scritta. Che resta e non vola via, come la sua voce. Che non si dimentica, perché ne resta una traccia nei file e nella memoria. Gli da ancora una grande rabbia non poter più scrivere. Da tempo il motoneurone si è fermato sulle dita contratte. Ultimo post il 17 agosto 2016.

Forse oggi con Freddy riapriamo il blog. Per un giorno soltanto. Scrive lui, io detto, con gli occhi. Che sono rimasti espressivi. Dai, che lo facciamo.

Fumettista e sognatore di professione, questo sono stato. Il cosplayer di Stephen Hawking sono diventato. La testa piegata e la carrozzina a motore ce l’ho, mi manca solo il sintetizzatore vocale e mi trasformerò nella parodia di uno degli eroi di carta che uscivano dalla mia matita fantascientifica e robotica.

Quando le dita hanno smesso di collaborare tra loro, non sono più riuscito a scrivere e a tenere in mano le cose. Le falangi contratte e la perdita del pollice opponibile non mi permettevano più di fare il saluto vulcaniano e di muovere il mouse.

Dovevo reiventarmi ogni giorno per usare le dita in maniera creativa, prima la mano sinistra poi anche quella destra mi hanno abbandonato. Impossibile guardare i film sul portatile e digitare i numeri sul cellulare.

Il tablet è stato la mia salvezza. Steve Jobs santo subito, che Dio lo benedica e lo abbia in gloria. Grazie alla penna che riuscivo a tenere con indice-medio-anulare, riuscivo a sbagliare soltanto una lettera su dieci. Il mignolo lo conservavo in esclusiva per sfogliare le pagine di un libro, dopo aver leccato la punta del dito, perché è quello che riusciva a tendersi meglio.

Da anni ci sono giorni in cui mi sento in equilibrio precario sopra ad un cornicione, al milleunesimo piano, altri in cui sono a cinque centimetri dall’inferno. In ogni caso escono da me tutte le parolacce del mondo, sono perennemente irritato e alterato. Non sono un eroe. Il mio alter ego è un anti eroe.

Per non impazzire dal dolore che mi da il lungo chiodo fisso che mi martella il cervello, ho solo osservato regole di sopravvivenza che mi sono inventato da quando sono arrivato qui e che aggiornavo man mano che peggioravo. Detesto i chiodi, in futuro ci saranno solo viti intorno a me. E un cacciavite sonico per avvitarle.

La mia clessidra impazzita sta terminando la sabbia. Ho provato in tutti i modi a metterci un tappo per rallentare la caduta, ma gli ultimi granelli stanno addirittura accelerando. Quando stavo bene e fin da bambino ripensavo a tutte le mie prime volte. Da quando sono un malato degenerativo penso solo alle mie ultime volte.

L’ultima volta che ho guidato l’auto, ho fatto un bancomat, le crepes, un’illustrazione per la rivista, ho aperto un barattolo di Nutella. L’ultima volta che son riuscito a tenere in mano un coltello, scritto a mano, usato la stampella.

Da disegnatore di fumetti mi disegno mentalmente in un Altromondo parallelo, mentre ho la mia vita normale, ho attraversato un periodo di malattia, ma sono guarito. Un altro me che si pulisce il naso quando starnutisce, si taglia le unghie, si gratta un gomito, si alza e cammina, beve una birra senza la cannuccia.

Pieno di sogni, desideri, progetti di lavoro. Sono i miei pensieri, ma siamo due persone diverse, io e il mio alter ego. Lui stasera uscirà per festeggiare con i colleghi della redazione, io sto andando verso un limite ignoto dove lui non può e non vuole seguirmi.

I miei giorni di buonumore sono stati pochi da quando anche il piede sinistro non si è più flesso, non ho più avuto forze sulle gambe e l’andatura era instabile anche con il deambulatore. E ora sono sempre a letto. Ho alzato ancora, a livelli umanamente inaccettabili, i miei limiti di sopportazione e di eroismo quotidiano. È una lotta all’ultimo sangue, quasi sempre mi sento un perdente. Sconfitto. Tutto mi dà fastidio.

Come se si tornasse indietro e tutto questo non fosse mai successo

Ma oggi arriva Freddy, non voglio rovinare la festa anche a lui. Non se lo merita. E non lo merito neppure io. Per oggi, soltanto per oggi e soltanto per noi due, non voglio pensare di essere su quel maledetto cornicione, tra gli escrementi dei piccioni che volando mi fanno perdere l’equilibrio.

Soltanto per oggi, la clessidra si trasformerà in una controclessidra, come quella che ho visto sul bancone del negozio di giocattoli scientifici tanto tempo fa nella mia città natale, all’angolo tra Corso Palladio e contrà Santa Barbara. Al posto della sabbia ci sono delle sferette e la clessidra è piena d’acqua. Le sferette colorate, più leggere del liquido che le contiene, sfruttando un semplice principio fisico, fanno scorrere il tempo andando verso l’alto. Come se tornasse indietro. E tutto questo non fosse mai successo.

E il pendulum che Freddy mi ha regalato il compleanno dell’anno scorso continuerà ad oscillare sul comodino accanto al letto. Rispondendo a precise regole matematiche, scriverà per me sulla sabbia disegni insoliti e sorprendenti. Magari ne esce un fumetto di sabbia.

E i dieci omini pieghevoli, fatti girare sulla base e riflettendosi sullo specchio magico, prenderanno vita e cominceranno ad animarsi grazie alla riproduzione in versione tridimensionale dell’antico praxinoscopio, che Marina e i ragazzi mi hanno regalato l’anno scorso e che hanno lasciato sul davanzale della finestra.

Osservando questi giochi capisco che sono ancora in grado di stupirmi e di emozionarmi. Questa capacità non è facoltà di nessun motoneurone. La malattia non ha potere su questo. Me lo devo ficcare ben in testa.

Con una vite. Con la fantasia, questa non mi manca, posso ancora andare sulla luna insieme ai miei personaggi di carta e compiere un viaggio cosmico tra i corpi celesti, come Star Trek.

Posso ancora alzare lo sguardo al cielo e sognare di disegnare con la penna a sfera dell’astronauta, fornita dalla Nasa nelle Missioni Apollo.

L’inchiostro è conservato in un serbatoio pressurizzato e la sfera è in carburo di tungsteno, per cui la penna è in grado di scrivere in qualsiasi condizione: all’insù, sott’acqua e anche a temperature estreme. Anche in condizioni estreme, come la mia.

La porta si spalanca con un sorriso. Freddy è arrivato. Torno sulla Terra da Marte. Houston sto atterrando a Cape Canaveral e non ho un problema.

Anche stavolta Freddy mi porta un dono. Mi sta viziando, devo dirgli di smetterla. Il pacco arriva dallo stesso negozio vicentino. Lo aprono ed esce lo Star Theatre, un planetario ad alta definizione che consente di fare incontri con il vero firmamento, proiettando sul soffitto della stanza un’immagine emozionante del cielo notturno e della mappa delle costellazioni.

Sono visibili circa diecimila stelle, oltre la Via Lattea, mi spiega uno dei figli di Freddy. E c’è anche la funzione stelle cadenti, incalza l’altro figlio più piccolo, tutto eccitato. E qui c’è il Prosecco, sorride Marina dandomi un bacio sulla guancia. Una lacrima di commozione scende dall’angolo destro dell’occhio. Che Dio li benedica. Ma è solo un attimo di fragilità.

Houston, si riparte. Sono stato un disegnatore di fumetti. Ora disegno sulle stelle. Resto un sognatore. Questo è il mio ultimo post. Dalla costellazione dell’Horologium. Felice Compleanno a me.

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