Nurse24.it

COVID-19

Cos’ha causato il cortocircuito in sanità nell'emergenza

di Marco Castioni

È innegabile che la situazione di emergenza che si è verificata abbia caratteristiche di straordinarietà. Proprio per questo motivo possiamo senza ombra di dubbio sostenere - nonostante il servizio di prevenzione e di risk management su scala nazionale abbia fallito - che dalla trincea ogni figura professionale sanitaria sta reagendo in modo eccezionale. Lavorano tutti a testa bassa, stanchi ma soprattutto stremati dalla paura di fare scelte dolorose o di correre il rischio di essere contagiati dal Covid-19. È proprio il pensiero logorante di quel rischio personale che riporta inesorabilmente e puntualmente giorno e notte alla malvagità di un virus subdolo e micidiale, capace di entrarti dentro e toglierti il respiro.

Emergenza Covid-19, un’analisi sulla gestione del rischio

Siamo tutti pronti a urlare a squarciagola le più svariate lamentele di fronte a un sistema sanitario che, grazie alle donazioni, inizia ad arrancare un po' meno. Ma arranca ancora; certo che arranca! Arranca per far fronte al disastro che questa pandemia, più o meno prevedibile in Italia, ha creato come uno tsunami.

Cos’ha generato tanta rabbia? La risposta è semplice: una gestione manageriale priva di comunicazione, incapace di placare nelle persone la paura di morire e di trasmettere il virus ai propri cari. E non è poco.

I DPI stanno per arrivare. Forse. Forse solo da noi, forse ovunque. Così dicono. Forse al Nord la ruota inizia a girare, ma al Sud? Così dicono. Così si diceva soltanto un mese fa. Forse. Forse. Troppi forse.

Troppi forse e troppe criticità che hanno coinvolto troppi colleghi, impegnati in prima linea. La testimonianza diretta di alcuni è scritta nel loro certificato di decesso che ha sancito probabilmente la sconfitta proprio del sistema di prevenzione e di gestione del rischio, in quasi tutte le realtà, in particolare a livello nazionale.

Prima di considerare la mancanza dei DPI come fattore principale vorrei ricordare che l’azione di contrasto alla pandemia del Governo è iniziata già il 30 gennaio 2020 con la chiusura dei voli diretti tra la Cina e l’Italia con decreto del Ministro della Salute: il giorno successivo, 31/1/2020, è stato dichiarato dal Consiglio dei Ministri lo stato di emergenza. Il documento era chiaro: “Dichiarazione dello stato di emergenza nazionale in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Ma vere misure di contenimento vennero prese solo venti giorni dopo, con la segnalazione dei primi due casi di contagio avvenuta la settimana prima del famoso fine settimana in cui lo stesso Consiglio dei Ministri ordinò con il Decreto legge 23 febbraio, n. 6 la chiusura delle scuole per il rischio di contagio.

Ma la catastrofe cinese era già conosciuta in tutto il mondo: forse qualcuno credeva che il virus rimanesse lontano nonostante un mondo globalizzato? È proprio questo il momento più cruciale di tutta questa storia. Si può considerare questo come punto d’innesco di una situazione che poi è esplosa in modo esponenziale.

La storia si ripete

Florence Nightingale

Questo è il momento in cui sono stati fatti gli errori più grandi non solo da una classe politica indecisa, ma soprattutto da coloro che delle varie emergenze ne fanno una professione. Anche se fa riflettere che le esperienze della Cina e dell’Italia non siano bastate a far comprendere anche al resto del mondo le logiche di protezione epidemiologica da questo virus.

Ma la storia si ripete, a dimostrazione del fatto che le logiche economiche prevalgono sempre anche sul bene più grande - la salute - laddove quasi ovunque è stato accumulato un ritardo fatale nell’attuazione delle limitazioni alla circolazione e alle attività commerciali (allontanamento sociale) in nome della salute, sì, ma dell’economia.

E comunque si dovrebbe mettere l’accento sulla mancanza di una cultura rivolta alla prevenzione e alla gestione del rischio, concreta ed efficace. Si può senz’altro affermare che uno degli errori più grandi è stato quello di non attuare strategie preventive nei luoghi dove la permanenza promiscua delle persone non poteva soddisfare le regole basilari di allontanamento sociale e quindi interpersonale: come quella attuata a Wuhan, in Cina, nella provincia dello Hubei, dove la situazione si è risolta solo con l’introduzione della quarantena totale garantita anche dalla minaccia della pena capitale.

Le prime città italiane colpite dall’escalation del contagio (Bergamo, Brescia, Milano) non sono molto distanti dalle prime zone rosse, ma la capacità di trasmissione del virus ha dimostrato come un legame invisibile ma effettivo con quelle zone ci fosse. Quindi luoghi come ospedali, centri commerciali, stadi, mercati, uffici/locali aperti al pubblico e attività di ristorazione di ogni livello anche dopo la comparsa del focolaio di Codogno hanno garantito la diffusione epidemiologica, favorita sicuramente anche dalla densità di popolazione che caratterizza la Lombardia.

Se in una prima fase fossero stati considerati tutti gli ospedali a livello nazionale come zone di “sicura trasmissione epidemiologica” (quindi la condizione peggiore) sarebbero stati gestiti in modo diverso anche i ricoveri ordinari e ambulatoriali già dalla fine di gennaio.

Innanzitutto, con i pazienti provenienti da varie località che effettuavano le visite e ricevevano le cure dai professionisti nelle varie strutture del Nord Italia e che potenzialmente potevano generare un nuovo focolaio. L’Italia settentrionale è, lo si voglia o no, un’area geografica che le relazioni internazionali rendono ancora più vulnerabile in questa circostanza. Basti pensare quante persone sposta il cosiddetto “turismo sanitario” dall’Italia e dall’estero.

Probabilmente bastava già, in questa fase, sensibilizzare le persone a una maggior attenzione e obbligare tutti a utilizzare una semplice barriera come la mascherina chirurgica, che per caratteristiche tecniche risulta inadeguata alla difesa di chi la indossa ma avrebbe evitato fin dall’inizio che un soggetto potenzialmente positivo avesse potuto trasferire l’elemento patogeno.

Detto ciò, sarebbe stato più corretto al fine preventivo considerare tutti potenzialmente “infetti", anche gli asintomatici. A maggior ragione se concentrati in luoghi che per le loro caratteristiche sono punto di raccolta di agenti patogeni. Ragione per la quale moltissimi contagi si sono verificati al di fuori dei reparti Covid, dove il personale sarebbe stato meno tutelato in quanto le indicazioni raccomandate e poi imposte prevedevano solo l’utilizzo di guanti, camici monouso e le semplici mascherine sopra menzionate: ovviamente utilizzate solo dagli operatori mentre i pazienti solo se presentavano sintomatologia influenzale. L’assenza di valutazione clinica con i tamponi ha fatto il resto.

La maggior parte dei protocolli e delle informative operative interne, sviluppate in funzioni alle direttive dell’OMS, dell’ISS e Regionali, non hanno garantito strategie rivolte alla vera gestione del rischio clinico, ma probabilmente solo a garantire un momento di “stallo” sufficiente per l’approvvigionamento del materiale, indispensabile per far fronte all’epidemia: una mancanza aggravata anche dalle chiusure politiche in ambito europeo. Una sorta di ‘mors tua, vita mea’.

La maggior parte delle strutture sanitarie, in difficoltà di approvvigionamento, non hanno avuto indicazioni corrette e, navigando a vista in un momento caotico, hanno gestito come meglio potevano l’emergenza nelle varie realtà elaborando procedure basate su indicazioni non appropriate. Quindi tralasciando anche alcune, ma fondamentali valutazioni sui reali rischi locali.

Hanno pertanto privilegiato, con i pochi DPI a disposizione, solo i percorsi assistenziali nelle fasi di primo contatto (pronto soccorso e primo soccorso) e nei vai percorsi Covid-19 conclamati.

La non comunicazione

Florence Nightingale

Eccoci arrivati al dunque. Sono state soddisfatte le finalità sancite dalla legge Gelli-Bianco e dalla legge 81/2008 e successive? Secondo chi scrive, ancora una volta non si è investito prima dell’emergenza Covid-19 sulla competenza manageriale, lasciando ai vertici delle catene di comando professionisti non competenti, incapaci di interagire tra loro, aprendo la strada alla non comunicazione, uno dei fattori principali nella gestione del rischio. Incapaci di fare valutazioni appropriate ma soprattutto incapaci di azioni coraggiose (contrarie alle logiche economiche immediate), che potessero bloccare o limitare l’epidemia locale.

Ritroviamo lo stesso modus operandi a cascata partendo dal vertice della piramide di comando Nazionale. A tutto ciò si sommano le disastrose politiche Europee, che non hanno agevolato il reciproco aiuto garantendo solo azioni singole, rivolte a “guadagni” nazionalistici, per garantire egoisticamente una scorta interna di strumenti DPI e respiratori: lasciando così sprovvista l’Italia, colpevole ormai da decenni di aver delocalizzato tutto. Anche i cervelli pensanti.

Mi auguro che da questa brutta esperienza si possa generare una reazione proattiva verso valutazioni capaci di apportare cambiamenti efficaci a un sistema che ha dimostrato di avere numerosi “buchi”, cioè difetti di sistema. Questi deficit riguardano carenze sul controllo sistematico di più aree di intervento del processo d’azione che un sistema complesso come quello messo in atto durante questa pandemia non può più permettersi.

Come ha schematizzato J. Reason nel modello cosiddetto system failure, nel quale si evince come in tutti i sistemi complessi si possano verificare situazioni dove ogni difetto di sistema può allinearsi generando eventi anche catastrofici che, nel nostro caso, hanno riguardato tutta la catena di comando partita dall’OMS e arrivata all’operatore sanitario. E, di conseguenza, al paziente.

Ma, allo stato attuale, si sta già aprendo la strada al rischio concreto di azioni legali spiacevoli nel post emergenza: almeno a questo le aziende saranno pronte? È grazie a noi esseri umani e alle nostre logiche socio-economiche se siamo così vulnerabili.

Con la speranza che si possa fare tesoro dell’esperienze vissute auguro a tutti - legali, politici e amministratori - di rendersi disponibili a una profonda valutazione professionale per garantire una crescita culturale e sociale che rispetti le vite perse in questa pandemia

Commento (0)