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Incominciamo a conoscerci, incominciamo dal nostro nome

di Lucia Teresa Benetti

Negli ultimi tempi qualcosa si sta muovendo. Ne sono sicura, perché mai come ultimamente sento parlare di Cura, prendersi cura, ascolto e quant’altro. Sembra che quello che con grande testardaggine cercavo, sola, di far valere e, soprattutto, chiedevo, stia diventando una “moda da cavalcare”. Un treno su cui salire finché c’è posto e siamo in tempo. Tutto questo potrebbe anche andare bene, se non vedessi proprio dietro l’angolo, ben nascosti, quei timori che il mio carattere solitamente scaccia.

Vorrei sapere quante persone hanno chiaro il concetto di Cura

Vorrei davvero sapere quante persone hanno chiaro il concetto di Cura e quante, invece, continuino a scambiarlo per altro. Scambiare, cioè, il verbo “curare” con il verbo “guarire”.

Quando mi chiedevo e chiedevo perché non ci fosse un minimo di attenzione nei riguardi della Persona bisognosa di cura, vedevo sorgere ai lati della bocca dei miei vari interlocutori sorrisini subito smorzati con parole che davvero sono divenute a noia: mancanza di tempo, di personale, necessità di velocizzare, budget, azienda…

Tutti veri problemi, tutti problemi in parte risolvibili. E qui mi spiego.

Quando per necessità (e qui sottolineo il concetto: per necessità) una persona è costretta ad aver a che fare con un luogo di cura (sia esso un ricovero ospedaliero, il passaggio per un ambulatorio o anche solo fare la parte di accompagnatore di un proprio caro bisognoso di aiuto) oltre al peso della malattia si trova a dover “combattere” per farsi… vedere.

Vedere come Persona. Vedere con il suo nome e cognome. Vedere per quello che è e non per quello che ha. Non essere solo il numero che verrà prima o poi chiamato (la privacy vuole così).

Non essere quel letto vicino alla finestra. Non essere quel pezzetto di corpo ammalato, diagnosticato, operato. Non essere uno stigma appiccicato dal primo momento.

Essere ancora Persona. Semplicemente, essere sempre Persona.

In un attimo ero diventata quella del colon del letto 16

Se mi guardo indietro e mi vedo entrare per la prima volta in ospedale, risento ancora quel disagio che non era solo dovuto al luogo (sconosciuto) o al mio star male. In un attimo ero diventata “quella del colon” e “il letto numero sedici”.

Lucia era sparita. O meglio, Lucia c’era ancora e piangeva dentro

Lucia voleva essere ancora “vista”, ma una montagna di cartelle, di esami, di persone che ne manipolavano il corpo, di letto spinto in sala operatoria, di volti che volutamente restavano sconosciuti (nessuno si è mai presentato), la sommergevano sempre di più.

Quando mi chiedono cosa faccio nella vita, solo poco tempo fa rispondevo che ero una paziente oncologica che anche scriveva. Che anche dipingeva. Che anche partecipava a convegni o andava in giro a presentare i suoi libri.

Ora, invece, rispondo che io sono una che scrive, che dipinge (ho cambiato stile visto le mie neuropatie), che partecipa a convegni, che va in giro a presentare i suoi libri e che è anche una paziente oncologica.

Ho ribaltato i ruoli. O, meglio, ho rimesso in ordine i ruoli. Ho rimesso la mia Persona, con il suo bagaglio di emozioni positive e negative, sotto il riflettore della Vita e la malattia è ritornata ad essere quello che deve essere.

Un inciampo (io lo chiamo così) che può capitare. Che si può più o meno risolvere. Che ti condiziona il vivere del quotidiano, ma che non deve essere la carta di presentazione per chi non ti conosce.

Oggi sono di nuovo una Persona

Non è la mia carta d’identità, non fa parte del mio curriculum vitae. Certo non è facile, perché ogni momento c’è qualcuno che cerca di ribaltare la situazione. E non sempre è solo il vicino di casa che ti guarda con una pietà che sa tanto di “poverina, cosa le è capitato”.

No. Basta ritornare in ospedale per i famosi, continui controlli (follow up) che subito ritorni un numero, il colon, la paziente oncologica. Ma non va bene. Non va bene per niente!

Non lo accetto dalla classe medica come non lo accetto da quelle figure che lo accompagnano. Infermieri compresi. Ma saranno infermieri? O saranno altre figure? Ecco è a questo che volevo arrivare.

Perché non presentarsi?

Porta via troppo tempo dire il proprio nome e qualifica? Non credo. Perché tutti devono sapere il mio nome e cognome (poi ignorato e sostituito con il mio pezzo di corpo malato) e io non posso conoscere chi mi sta davanti?

Non sarebbe più “normale” presentarsi mentre ci fate accomodare? E non succederebbero meno confusioni quando nel bene o nel male si parla di voi? Sento polemiche (giuste), considerazioni sul riconoscimento di ruoli (giusto), ma di fatto perché non iniziare dai piccoli gesti, dalle piccole cose?

Infermieri, fatevi riconoscere. Sempre

mani nella morte

Credetemi non è questa la maniera. Non imparate anche voi ad immusonirvi. Quella è una specialità della classe medica.

Voi avete fatto e state facendo passi da giganti. La vostra professionalità, competenza è cresciuta a dismisura.

Il vostro essere sempre più tecnici lo si sente e lo si vede. Ma non dimenticate le radici. Voi siete anche accoglienza. Siete coloro che faranno sempre da ponte fra noi, cittadini bisognosi di cura e il medico che ci guarirà.

Ma la Cura è vostra. Non ve la può togliere nessuno. Io parlo sempre dei “miei infermieri” e del medico che mi ha guarito. Io cerco i “miei” infermieri e dopo parlo con il medico.

Questa specificità ve la devono riconoscere. E questa specificità ve la dovete tenere stretta anche se fate carriera. Anche se diventate dirigenti o occupate posti di comando.

Ricordatevi sempre che voi siete la nostra tutela. E tutelando noi tutelate anche voi

È un dare/avere reciproco. È una specie di tutela circolare. Io con la mia Persona e la mia Vita mi pongo sotto i riflettori e così lo fate anche voi con la vostra Persona e la vostra professionalità. Sono momenti particolari questi. Momenti in cui tutto diventa spettacolo. Tutto viene ingigantito, distorto, dipinto con colori accesi.

Ma ricordatevi tutto questo, soprattutto, quando avrete davanti la Persona che non vi potrà guardare negli occhi, perché la sua sarà una posizione orizzontale. Ricordatevelo anche un po’ di più.

Perché noi, che spesso vi incontriamo vestiti solo di un pigiama, proprio in quel momento abbiamo più bisogno di Cura.

Proprio in quel momento abbiamo bisogno di sapere che l’infermiere Mario, Franco, Luca o Luisa, Cinzia e Cristina sono quegli infermieri che sapranno non solo prenderci per mano aiutandoci a superare la nostra malattia, ma sapranno anche accoglierci con la loro Cura fatta di ascolto e di vera attenzione.

Ecco. Incominciamo a conoscerci. Incominciamo dal nostro nome.

Io sono Lucia e ho bisogno di sapere come ti chiami anche tu. Mi farà sentire meno sola, mi aiuterà ad avere meno paura. Sentirò il tuo nome come un ponte verso la sicurezza, verso il certo, verso quel nuovo pezzo di strada fatto di esami cruenti, di terapie e di visite che di colpo diventeranno meno dolorose.

Perché ci saranno una Federica, una Lucia una Virna che, sorridendomi, mi regaleranno una parte si sé. Mi avranno regalato il loro nome. Mi avranno, così, semplicemente detto “ci siamo anche noi con te. Non avere paura”.

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