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Emergenza-Urgenza

Perché ci si scaglia contro il Pronto soccorso?

di Lucia Teresa Benetti

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In quel tempo in cui sono stata in attesa delle risposte tecniche prima di quei quattro punti in testa, per l’ennesima volta mi sono chiesta perché ci si scagli così tanto contro il Pronto soccorso. Certo deve essere questione di codici. Anche di codici. Se io arrivo al triage in codice bianco o verde, mi devo aspettare dei tempi lunghi di attesa. Anche per essere visitato. Perché il personale non si può a piacimento sdoppiare o moltiplicare o come dir si voglia. Perché di codici gialli e rossi il Pronto Soccorso è pieno. Pieno… Voglio fare un passo indietro e forse diventare impopolare. Ma se io chiedo esami di coscienza a tutti, non vedo perché io, da paziente, non lo debba fare.

Potenziando il territorio sarei educata a prendermi cura di me

Si sa che ogni “stanzina” in Pronto soccorso ha le pareti formate da pesanti tende che scorrono a seconda del bisogno. Nella “stanzina” accanto alla mia c’era una persona anziana con la figlia che le stava accanto.

Presumo che la paziente fosse in condizioni non eccellenti. Sentivo la figlia commentare (al telefono o con un altro accompagnatore) che fosse addirittura dal giorno prima che attendeva là, seduta su una sedia, con sua madre.

Per un attimo (brevissimo attimo) mi ero preoccupata. Poi la ragione si è fatta avanti e ho capito che ciò che qualcuno le stava dicendo (e le spiegavano gentilmente per l’ennesima volta) era quello che avevo supposto correttamente.

La signora era ancora là, perché non si era ancora liberato un posto letto nel reparto di medicina. Allora dov’era il problema? Perché lamentarsi? Perché non dire grazie e sentirsi fortunati? Solo perché non c’era una poltrona dove poter riposare la notte invece di andare avanti/indietro?

Perché non capire che se qualcun’altro si fosse preso in carico quella paziente, a casa, non ci sarebbero state ore di attesa, gambe gonfie e doloranti per una notte passata su una sedia e, soprattutto, un posto libero in più al Pronto soccorso e del personale più disponibile per potersi dedicare ad altri? Magari in condizioni anche più gravi.

Io non sono un’esperta. Cerco, però, di capire e andare ad intuito. A buon senso. E qui voglio usare una specie di lente d’ingrandimento. Se mi si prescrive un esame, un accertamento, so già che ci sarà una lunga attesa. Spesso di mesi.

Se mi “invento” un mal di pancia (non visibile, ma ohi ohi che male che fa!) e arrivo in Pronto soccorso (magari in ambulanza) mi faranno (gratis) ogni accertamento possibile. E avrò saltato la fila. E mi sentirò “furbo”.

Alzi la mano chi non l’ha per lo meno pensato. Tutti. Vado in Pronto soccorso e al limite pagherò (ma si paga?) un ticket, ma avrò tutte le risposte. E subito. Se io una settimana fa avessi potuto andare dal mio medico curante subito, appena caduta, probabilmente, dopo un primo soccorso, mi avrebbe mandato in ospedale. O forse, se fosse stato attrezzato, avrebbe potuto accogliermi, tranquillizzarmi, ripulirmi, ricucire, fare degli esami e magari anche una radiografia (non dico la TAC).

Avrei anch’io non “intasato” il Pronto soccorso. Tutto questo per dire cosa? Che bisogna cambiare! Come si parla o si parlava di vigile di quartiere o quant’altro, perché non pretendere che sul territorio ci siano degli ambulatori tali da “filtrare” chi inviare in Pronto soccorso? Perché non pensarlo ed attuarlo?

Perché non avere l’infermiere (o gli infermieri) di quartiere? Perché non pretendere che il medico di base ritorni a fare il medico invece che il burocrate che prescrive esami (tanti, così il paziente è contento e si sente “curato”), medicine a volontà, visite da specialisti quando, forse, basterebbe un “ascolto” un po’ più attento e una conoscenza della Persona un po’ più profonda?

Lo ricordiamo il vecchio, caro medico di famiglia? Io sì. Il mio era burbero e rassicurante. Mi visitava sempre. Era lui che faceva la diagnosi. Non io, perché suggerita dal dr. Google o dall’amico o dal vicino di casa.

Perché davvero non si inizia a pensare di potenziare il territorio? Mancanza di fondi, di personale, di…? Mancanza di buonsenso. Per me è solo mancanza di buon senso.

Perché se io mi ferisco lievemente, un po’ di più di un semplice graffio, potrei rivolgermi al mio ambulatorio di quartiere. E qui trovare quell’infermiere (oggi molto, molto preparato e competente) che ogni mattina mi saluta andando a lavorare.

Un viso che imparerei a conoscere. E già questo mi metterebbe in una situazione di vantaggio nei confronti dell’ansia. E non correrei in Pronto soccorso ad alimentare la fila in attesa di essere visitata. E a brontolare, di conseguenza, per il “tempo perso”.

Imparerei che ci sono figure capaci di “filtrare” le gravità. Sarei educata a prendermi cura di me, senza dover per forza andare in ospedale. Questo luogo di cura dovrebbe essere solo per i casi urgenti. Dove davvero si necessita svolgere indagini approfondite per giungere ad una guarigione. Diventerebbe lo stesso Pronto soccorso un luogo diverso. Più immediatamente fruibile. Da chi davvero ne avesse bisogno.

Pazienti e operatori sanitari devono allearsi

Quando sono uscita era già ora di cena. Mio marito era arrivato da Firenze, i miei figli avvertiti. Mi sono guardata intorno ancora un momento. Ho visto tanti, tanti davvero, lettini con persone più o meno sofferenti stese sopra.

Ho visto infermieri chini su di loro a consolare, fermi in mezzo a corridoi a spiegare agli accompagnatori prassi che sicuramente hanno snocciolato come litanie chissà quante volte. Sempre con pazienza.

Li ho visti e sentiti cantare una canzoncina di una sigla dei cartoni animati ad un bimbo alto come un soldo di cacio con una brutta ferita sul mento da ricucire. Non ho sentito un pianto. Né da quel bambino, né da nessun altro.

Certo ci saranno pecche, ritardi, maleducazioni inaspettate. Certo. Normale. Siamo tutti persone.

Ognuno con le proprie difficoltà. Noi pazienti con una in più: il nostro star male. Ma credo anche una cosa: pazienti ed operatori sanitari devono allearsi.

È impensabile che dieci persone possano fare per venti in un reparto dove l’urgenza è la normalità.

Non carichiamo queste persone di croci e critiche che davvero non meritano. Guardiamo, noi cittadini che stiamo bene, un po’ più in là e cominciamo a chiedere quello che sarebbe logico. Suggeriamo soluzioni. Partendo dalle nostre esperienze. Non limitiamoci a “contare le ore” passate ad aspettare. Chiediamoci cos’era quel tempo che passava. Chiediamoci il perché di quel tempo. E impariamo a dire grazie. Almeno qualche volta.

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