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Hate speech e infermieri: Quando il web tira fuori il peggio

di Giordano Cotichelli

Social network come veri e propri campi di battaglia. A sferrarsi colpi sempre più tendenti al basso, ahinoi, sono anche gli infermieri. Molto spesso si è detto che la professione infermieristica non deve essere oggetto di pregiudizi e stereotipi; allora come può l’infermiere stesso essere portatore di una visione pregiudiziale e razzista? Certo, anche l’infermiere è umano ed è facile condividere un post che solletica la nostra frustrazione. Ma l’odio è facile, mentre essere infermiere è molto, molto più complesso. Essere infermiere è meglio.

Fake news, razzismo e guerra a colpi di post: Se questo è l'infermiere

social network

Tempo fa qualcuno ha detto che con i social è stata data la parola a legioni di imbecilli. Era Umberto Eco, uno dei più importanti intellettuali di questi ultimi anni, scomparso da quasi due anni. L’affermazione ha sollevato a suo tempo diverse levate di scudi. Vero è che i social della rete rappresentano uno strumento tanto immediato e tanto diffuso di comunicazione, che non sempre il loro uso risulta virtuoso.

È di qualche giorno fa l’appello da parte del leader del PD Matteo Renzi ad una moratoria in merito alle fake news che circolano. Specie in vista delle elezioni, pensando ai risultati delle votazioni statunitensi e all’ascesa di Trump.

Il sentore diffuso è che i social, come mezzi di comunicazione ed informazione, rispetto all’ignoranza, favoriscano più il passaggio verso l’idiozia che non verso la conoscenza. E ad un livello di stupidità diffusa e condivisa, si associa poi parallelamente lo sviluppo di un livello di odio e cattiveria che mostra frustrazioni represse, risentimenti malcelati, rancori di ogni sorta che, tutti assieme, come in un imbuto di follia, fuoriescono dallo schermo digitale per dare la forza a quelli che vengono definiti i leoni della tastiera, primatisti della condivisione e fautori (e anche vittime allo stesso tempo) di quella che ormai viene chiamata la hate speech, la parola dell’odio.

L’hate speech è qualcosa di immediato. Non bisogna avere particolari conoscenze o fare chissà quali analisi per comprenderla. Risponde ai dubbi più pulsionali, non si carica di incertezze di sorta, rifiuta la mediazione quale segno di debolezza, smaschera responsabilità e trova capri espiatori per soluzioni pronte all’uso, ma che non risolvono nulla.

Il pensiero relativista viene spazzato via in una visione semplificata di un universalismo monocratico dove i termini “schifo” e “assolutamente” dominano incontrastati. Molto spesso tragedie personali e drammi sociali sono l’ultimo prodotto di semplici e vigliacche campagne d’odio che portano al suicidio della vittima di turno.

In Germania già da alcune settimane una legge è in vigore contro i fomentatori d’odio, ma la questione è più complessa di quanto non appaia e, nello specifico, riguarda direttamente la stessa professione infermieristica, come espressione di scienza rivolta all’assistenza, al bisogno, alla relazione e alla comunicazione e, al tempo stesso, come oggetto/soggetto di luoghi virtuali, dei walled garden (giardini recintati) dei profili Facebook individuali o ancor più del mondo scientifico e dell’associazionismo.

Un esempio su tutti: la Ministra della Sanità, Beatrice Lorenzin, apostrofata in vari modi non tanto per quello che fa, per le scelte di politica sanitaria molto spesso discutibili, ma in quanto “… simbolo di un paese malato dove l’infermiere deve essere laureato, mentre la sua ministra ha fatto appena il liceo classico”!

L’affermazione è completa: c’è la vittima (l’infermiere), il torto subito (il diverso livello di considerazione non proporzionato al titolo) ed infine il capro espiatorio (lei, la Ministra).

Tutto molto semplice, immediato, condivisibile con appena qualche click! Anche se totalmente inutile a risolvere le sorti degli infermieri, viene mostrato il prodotto fine a se stesso e portatore di una visione – quella del capro espiatorio e del complottismo – che crea, alimenta e diffonde odio a piene mani. Affermazioni di questo tipo riguardano anche la Presidente della Camera, on. Boldrini, i “politici” cattivi che prendono più degli infermieri e via via fino a tutte le varie multinazionali di ogni tipo, colpevoli delle scie chimiche, dell’autismo vaccinale, etc. etc.

In alcuni gruppi infermieristici vanno per la maggiore parole come “negro”, “extracomunitario”, “loro” (nemici indefiniti e pericolosissimi) ed ogni altra sorta di appellativo per stigmatizzare il diverso, reo di rubare il lavoro ai bravi infermieri italiani, colpevole di sprecare i soldi al sistema sanitario nazionale e così via.

Si potrebbe continuare all’infinito, ma alcune considerazioni vanno elaborate. In primo luogo, la soggettività infermieristica. Anche se figli di una formazione accademica - e quindi scientifica - legati ad una professione che basa il suo agire su linee guida e protocolli, l’infermiere e l’infermiera sono persone come le altre, con le loro fragilità, insicurezze e, in qualche caso, non poche frustrazioni.

Essi sono inoltre i prodotti di una cultura, nel caso italiano, che non li pone al di fuori dagli stereotipi né dai pregiudizi, dal razzismo più o meno manifesto, che non ha fatto in tempo a togliere il cartello “non si affitta ai terroni”, per adattarsi tranquillamente alla caccia dell’extracomunitario.

È la cultura di un paese che ancora deve completare – se mai lo farà – il suo processo di acquisizione di una veste pluralista e multiculturale, di fronte non solo ai tempi che cambiano, alle “invasioni straniere” che premono, ma di fronte alla vita stessa che vuol dire movimento, dinamicità, diversità.

Un collega, qualche giorno fa, mi ha raccontato dell’episodio occorso al momento del ricovero in una corsia ospedaliera di un paziente che, accortosi che il suo compagno di stanza era di origine africana, si è rifiutato di accomodarsi in quella camera, minacciando di firmare la cartella ed andarsene se non fosse stata trovata una soluzione che garantisse lui che era italiano e non “quello lì”.

Fortunatamente c’era qualche letto disponibile in più. Il problema però resta: come comportarsi di fronte ad un livello di frustrazione che si trasforma in revanscismo contro l’altro da sé, contro il diverso, spesso più debole e indifeso?

È chiaro che gli infermieri - come tutti gli altri professionisti della salute - e i cittadini in senso ampio, sono liberi di avere una loro idea del mondo, il più possibile libera e diversa. Ma è chiaro allo stesso tempo che questa deve essere includente e non esclusivista, rispondere, specie per le professioni d’aiuto, a dettami scientifici, o verificabili in tale maniera e non a supposte teorie razziali e razziste che di scientifico non hanno nulla.

E non si sta parlando solo della castroneria dell’esistenza delle razze, ma del concetto stesso di etnia, molto spesso citato e molto spesso usato quasi come succedaneo di “razza” e sempre più visto in maniera sospetta da sociologi e antropologi.

Se molto spesso si è detto che la professione infermieristica non deve essere oggetto di pregiudizi e stereotipi, come può l’infermiere stesso essere portatore di una visione pregiudiziale e razzista? Non solo.

Se la malattia e il bisogno assumono spesso una dimensione gerarchica che si impone e rompe l’omeostasi della quotidianità del paziente e della sua famiglia, come si possono assurgere a visioni e modelli, pensieri e categorizzazioni che creano gerarchie fra esseri umani, fra chi ha diritto al SSN e chi non ce l’ha, fra chi nasce cittadino di serie A e chi … “No jus soli”?

Non si tratta solo di assumere il modello di lettura di Madeleine Leininger, delnursing transculturale, ma di rendere funzionale una lettura multidimensionale del bisogno, olistica dell’assistenza, solidale della relazione e della comunicazione.

È facile condividere un post che solletica la nostra frustrazione, ma ciò non significa che sia veritiero il suo contenuto e giusta l’azione. Come è facile fare una medicazione in modo sbrigativo, perché così si è sempre fatto, perché io sono il più anziano, perché … senza verificare indicazioni, protocolli, linee guida scientifiche sviluppate.

È facile l’odio, mentre essere infermiere è molto, molto più complesso. Essere infermiere è meglio.

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Commenti (1)

cinzia57

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3 commenti

razzismo

#1

Aneddoto raccontato a Giordano Cotichelli.
Io faccio l'infermiera da molti anni. Al paziente che non voleva entrare nella stanza perchè c'era un paziente di colore nero , e minacciava di firmare l'uscita volontaria io l'avrei fatto firmare ,non gli avrei trovato un altro letto. Vuol dire che il signore non stava così male. Io sono fermamente convinta che non bisogna farsi minacciare dai pazienti per nessun motivo. La sanità pubblica offre dei livelli assistenziali ottimi per tutti e senza spendere un € in caso di ricovero. Cosa che in altri stati non esiste. Di questo la gente ne deve essere consapevole. Se non gli vanno bene i confort o i compagni di stanza vanno a pagamento se possono , altrimenti si adattano.
Cinzia 57