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Editoriale

Nuovo codice deontologico, l'analisi di un infermiere

di Giordano Cotichelli

In questi mesi è all'attenzione del corpo professionale la nuova versione del Codice deontologico elaborata lo scorso autunno e oggetto di polemiche e personalismi di sorta che rimbalzano sui social. Al di là di qualsiasi considerazione in merito, i cambiamenti apportati alla versione del 2009, “vecchia” appena di sette anni, meritano un’analisi attenta.

Il nuovo Codice deontologico: poco ideale e molto servizio

La mia visione della bozza del nuovo codice deontologico degli infermieri

Leggendo la bozza del nuovo Codice deontologico, la prima impressione è quella di un restyling generale. Si passa da 51 articoli a 40. Alcuni articoli scompaiono, come il famigerato art. 49, quello dell’infermiere “sempre a disposizione” e l’art. 30, quello sulla contenzione.

Forse qualcuno si è ricordato del caso di Francesco Mastrogiovanni. In buona parte c’è un accorpamento e una riformulazione generale che porta ad una catalogazione dei sei capi esistenti.

Un approccio che sembra puntare ad un codice strutturato in argomenti e non apparire come una semplice elencazione di comportamenti e prescrizioni le quali corrono sempre il rischio di presentarsi quasi in forma di mansionario.

Sin dall’inizio, però, c’è qualcosa che non convince e lascia interdetti. È l'enunciazione del concetto di ideale di servizio fatta nell'art. 1 in maniera quasi prescrittiva e meglio chiarita nell’articolo successivo, dove fra i vari ambiti di applicazione – assistenza, educazione, organizzazione e ricerca, non risulta però quello del livello dirigenziale dell’assistenza.

Un ideale di servizio che si esplicita con l’affermazione in cui si sottolinea che l’infermiere “è integrato con il suo tempo”. Passaggio che, prima di dare un senso di correlazione stretta fra professionista, dottrina e società di riferimento, esprime, con la parola “integrato” quasi un discrimine, dato che viene da chiedersi a cosa possa riferirsi, o meglio chi valuta se il professionista è integrato o meno.

E se per caso il tempo in cui vive l’infermiere è un tempo “brutto”? Un tempo in cui viene legittimato qualcosa contrario alla stessa vita umana, all’assistenza, alla salute?

Il fatto che un professionista debba essere al passo con il progresso scientifico, consapevole della dimensione socio-culturale che lo circonda, è un dato incontrovertibile, ma unire i concetti di ideale di servizio e integrazione temporale in uno stesso articolo, buttati lì senza una minima contestualizzazione di sorta, rimanda a immagini non belle.

Considerazioni che fanno pensare a quegli infermieri che erano integrati nel loro tempo, che accettavano l’eutanasia di stato, iniettando alte dosi di insulina ai disabili, o concorrevano a sperimentazioni su cavie umane, perseguendo la selezione razziale avvalorata dall’ideale di servizio che a quel tempo dominava – ad esempio - nella Germania nazista in cui vivevano.

Erano anche loro infermieri integrati, come i colleghi di qualsiasi altro totalitarismo passato o presente, che nessuno di noi si sentirebbe di imitare, men che meno giustificare quali ligi esecutori di un orrendo ideale di servizio.

Considerazioni forti, al limite della provocazione, che però sottolineano come, nel contesto di un codice deontologico, le parole assumono una dimensione valoriale chiara che deve essere scevra da fraintendimenti di sorta

In questo, scorrendo i quaranta articoli rimodellati lo scorso autunno, viene voglia di perdersi in analisi lessicali ulteriori, come nel caso di termini quali “decoro”, “prestigio” o “rispetto” (tanto per citarne alcuni).

Ogni infermiere ne conosce l’intimo significato, ma è vero altresì che sono parole che, in una fase di passaggio come quella attuale, possono legittimare o meno situazioni e comportamenti in termini spesso diversi.

È indecoroso avere una divisa sporca mentre è decoroso non fare nulla che metta in cattiva luce un sistema di cure che crei disuguaglianze? La parola rispetto può riferirsi al bisogno espresso, alle condizioni dell'assistito, come alla gerarchia cui si deve sottostare sul piano professionale.

C’è da perdersi nella polemica fine a se stessa, anche se, in questa nuova versione del codice deontologico, nell’accorpare concetti, considerazioni e precetti, in molti casi sono saltati passaggi, spiegazioni, declinazioni, ritrovandosi alla fine di fronte ad articoli declamatori senza però una parvenza di significato e di pregnanza.

È il caso, ad esempio, dell’articolo 7 dove si afferma che l’infermiere tutela l’ambiente. Buona cosa, ma decisamente abbastanza gravosa per un semplice professionista e, soprattutto, un po' fuori fuoco rispetto a come nella versione del 2009, all’art. 19, veniva meglio espresso il concetto in cui “L'infermiere promuove stili di vita sani, la diffusione del valore della cultura della salute e della tutela ambientale, anche attraverso l’informazione e l'educazione”.

All’articolo 3 della bozza del nuovo codice, poi, vengono messi in evidenza il rispetto della dignità, dell’uguaglianza, della libertà, etc. Nella versione del 2009 l’articolo 4 invece recitava, in maniera più declamatoria che: “L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona”.

Era un articolo frutto della fusione di due precedenti e prendeva di petto la questione delle disuguaglianze nella salute, sottolineando gli elementi su cui porre l’attenzione dell’intervento, rimandando così non solo alla dimensione individuale degli stili di vita cui prestare attenzione, ma ad un approccio più ampio, proprio della conoscenza dei determinanti sociali ed economici della salute e della malattia, che il generico riferimento a concetti di libertà ed uguaglianza non riescono a produrre allo stesso modo.

Inoltre, nella vecchia versione del 2009, l’art. 7 metteva in rilievo gli elementi propri dello svantaggio, dell’autonomia, della fragilità e della disabilità. Sostantivi che nella nuova versione scompaiono e che lasciano un vuoto declamatorio grave.

Lungo questa prospettiva si inserisce la categorizzazione dei vari capi. Ce n'è uno generale, riguardante i principi e i valori (6 articoli), ed uno specifico, ristretto ad appena tre articoli, per la condizione del fine vita.

La scienza, dottrina o pratica che dir si voglia, (ogni accezione lessicale ovviamente ha le sue peculiarità) rappresentata dall’assistenza, trova posto al Capo II (7 articoli). Ed è una buona cosa, ma poi si ha il Capo III, che parla di uno strumento – la comunicazione – strettamente correlato con l’assistenza, che doveva essere, forse, ben estrinsecata in precedenza.

La correlazione stretta della professione con la collettività umana e la comunità sociale di riferimento (in cui è integrato), lungo un piano di lettura istituzionale e organizzativa, non trova posto come dovrebbe e viene fugacemente affrontato all’interno del capo V, sull’organizzazione e l’assistenza (5 articoli).

Alla fine la centralità del Collegio professionale viene estrinsecata dal Capo VI con ben 7 articoli i quali, questi sì, potevano – con il massimo rispetto - essere ben sintetizzati e ridotti.

Alla fine c’è una sensazione di giramento di testa, di qualcosa di partito bene, ma che è restato incompiuto. Qualcosa di non detto

Aggiornare oggi il codice, dopo appena sette anni, può essere giustificato da cambiamenti profondi avvenuti o dal bisogno di rimediare lacune precedenti.

Non sembra di trovarsi di fronte a nessuna delle due situazioni e la nuova versione del codice non ha quell’afflato ampio e chiaro che parla sul piano valoriale dell’infermieristica e degli infermieri, delle soggettività, dei bisogni e delle fragilità di riferimento lungo un percorso di presa in carico, di partecipazione attiva, di accompagnamento e di advocacy cui la professione è chiamata a rispondere in termini “integrati” nel nuovo panorama del terzo millennio e dove la salute è letta in termini più di resilienza che di “ideale di servizio”.

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