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Disoccupazione, precariato, qualità delle cure, ne parliamo con l'On. Binetti

di Marco Alaimo

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ROMA. Senatrice della Repubblica, legata al mondo dell'infermieristica e da diversi anni si occupa di sanità. Siamo riusciti ad incontrarla Montecitorio, avendo così la possibilità di confrontarci sui temi riguardanti l'infermieristica e la sanità in generale.

D. Tempo fa Lei ha incontrato giovani medici per protestare con loro circa la condizione di precariato. Cosa ne pensa di questa situazione? Può essere un segnale di garanzia e di qualità di un servizio così importante come quello alla salute?

 

La precarietà non può essere un segnale di qualità, io direi tanto più nel mondo infermieristico per tre ragioni sostanzialmente: la prima, è che il malato ha bisogno di un rapporto stabile e continuativo con chi lo assiste. Il malato di oggi è un malato acuto in alcuni casi, ma nella maggior parte dei casi è un malato con forme di cronicità è quindi un malato che può tornare più volte nei vari servizi (ambulatorio, reparto etc.) somma diversi ricoveri nell’arco della propria vita.

  

L’idea di poter ritrovare l’infermiere che lo conosce, che conosce come prenderlo anche fisicamente ovvero come manipolarlo come muoverlo, l’infermiere che conosce le sue fragilità che conosce le sue specificità nel processo di cura, questo è parte integrante dello stesso processo di cura e guarigione del malato. Io trovo che la precarietà negli infermieri è una situazione che non può garantire qualità.

 

Ma c’è anche un altro motivo: cè un bisogno fondamentale che fra medici e infermieri si creino quelle condizioni di collaborazione di responsabilità condivisa che permettano da un lato di ridurre assolutamente un margine di rischi ed errori che si possono presentare; e dall’altro quindi di rendere funzionale ed efficiente, dinamico proprio lo stile di lavoro del reparto/setting.

  

La precarietà dei medici e degli infermieri mette i professionisti nella  condizione di dover cominciare sempre da capo, questa è una delle cose che mette sempre i pazienti alla fine a dover pagare le spese in termini di ridotta qualità assistenziale. Il terzo motivo per cui la precarietà degli infermieri mi vede contraria è legata al fatto che spesso tale precarietà si organizza in modelli strutturati come cooperative. L’infermiere che lavora in una cooperativa è un professionista che da un lato acquisisce una sorta di diritto o una maggiore probabilità di trovare opportunità di lavoro concreto, ma dall’altra è doppiamente precario, perché è sottoposto a tutta quella labilità di vincoli che molte volte le cooperative impongono agli infermieri.

  

Spesso poi le cooperative non garantiscono la qualità di competenze di tutti i professionisti, e lavorando in questi termini l’infermiere rimane un eterno “Jolly” in mano a questa organizzazioni; ricordo il famoso modello organizzativo degli infermieri che forse piace a pochi ma che non si è riusciti ad inventarne uno nuovo ovvero il turno che prevede mattino/pomeriggio/notte/smonto riposo e jolly, è come se uno facesse il jolly a vita e quindi sei in una situazione diversa in contesti diversi e con interlocutori diversi e pazienti diversi e questo non ti permette di acquisire e stratificare la tua competenza e ti rende ovviamente meno capace di perfezionare le tue competenze.

 

D. Non era mai successo nella storia dell’infermieristica di avere così tanti disoccupati. Quali possono essere le garanzie per chi non trova lavoro ed è costretto ad esempio ad aprire la partita iva per lavorare (quindi senza garanzie nelle malattie, con turni spesso al limite del legale e con demansionamenti nel proprio lavoro)?

 

Il tema vero è che noi abbiamo il blocco del turnover, che ovviamente non permette a procedere a delle nuove assunzioni, di stabilizzare il personale che c’è, ed è legato al fatto che molte regioni hanno un bilancio in rosso evidentemente per una gestione amministrativa non corretta, quindi la causa a monte dovrebbe essere quella di recuperare oggettivamente una amministrazione degli assessorati alla Sanità, ridurre gli sprechi e trovare totalmente quella capacità di identificare e lavorare sulle priorità, perché quando noi parliamo di disoccupazione dobbiamo distinguere due cose: prima di tutto il numero degli infermieri è un numero che viene progettato e programmato ogni anno (con esami da superare e selezioni da fare) tale progettazione e programmazione dovrebbe prevedere quali sono i flussi in uscita e garantire analogamente i flussi in entrata.

  

Quindi il fatto che vi sia tanta disoccupazione significa che i flussi in entrata non stati programmati in maniera adeguata, ma io temo che a questa disoccupazione si cerchi di rispondere con una sorta di “sotto occupazione” che è quella che abbiamo descritto precedentemente.

 

Oppure spesso non c’è ancora un’attenzione sufficientemente e organicamente strutturata a quella che si chiama medicina del territorio. L’infermiere di territorio così come quello domiciliare, dovrebbero essere gli elementi chiave di questa rivalutazione del sistema sanitario che sposta la valutazione da quello che è l’ospedalizzazione a quella che è la medicina del territorio. E’ inimmaginabile pensare che la medicina del territorio sia fatta solo dai medici, serve l’integrazione con gli infermieri e con altri professionisti, così da poter creare delle piccole equipe che si spostano in modo coeso ed integrato la dove vi sono i bisogni dei pazienti.

 

Questi non devono essere però bisogni sconosciuti, ma sono i bisogni di quel paziente che vive in quel territorio; così da poter far passare il senso di spaesamento che può vivere la persona assistita a domicilio che riceve così sempre lo stesso professionista, e instaura la necessaria fiducia e alleanza terapeutica, che può far garantire e percepire la continuità assistenziale nel proprio contesto in termini qualitativi e ridurre il numero di accessi impropri al pronto soccorso. Questo significa però finanziare la medicina e l’infermieristica, finanziare i servizi sanitari domiciliari in modo adeguato e coerente.

 

D. Il demansionamento è un fatto punibile legalmente, ma spesso questo accade sotto gli occhi di tutti. Recentemente in Emilia Romagna abbiamo assistito alla questione badanti che potevano essere trasformate in “infermiere tuttofare”, mentre migliaia di colleghi laureati sono spesso a casa. Le sembra una risposta adeguata al bisogno assistenziale nella nostra società sempre più complessa e multiproblematica?

 

Noi abbiamo tantissimi anziani e malati cronici in contesti familiari che sono sempre più piccoli e spesso fortemente in crisi. Per cui ormai ci si è abituati ad affidare la cura dei propri cari ad esempio a delle badanti che spesso sono straniere (e alle volte non parlano nemmeno bene la nostra lingua).

  

Il fatto di voler qualificare queste badanti garantendo alcuni obiettivi come ad esempio il fatto di conoscere la lingua italiana per comunicare con l’anziano, che sappiano come prendersi cura nelle manovre igieniche di base, nella mobilizzazione soprattutto in quei soggetti non attivamente e autonomamente capaci, che sappiano nutrirlo e alimentarlo adeguatamente; quindi migliorare la qualità e la competenza di queste badanti e orientare magari la formazione a quelli che sono i compiti essenziali che debbono svolgere agli anziani, secondo me è un fatto dovuto.

  

Certamente queste badanti potranno svolgere il loro ruolo in condizioni di sicurezza e  maggiore competenza se ci sarà qualcuno che in qualche modo coordina, ad esempio l’infermiere domiciliare che guarda il malato che monitorizza la condizione e la stabilità clinica, che orienta il lavoro della badante potrebbe essere una sintesi virtuosa.

 

Ovviamente non possiamo pretendere che la "badante faccia l’infermiera, ma nemmeno che l’infermiera faccia la badante". Sarebbe un vero demansionamento. Alcuni pazienti hanno bisogno invece di un’ assistenza più completa e quindi è necessaria esclusivamente la presenza di un infermiere.

 

D. Secondo Lei ci sono in Italia i margini per le competenze avanzate in campo infermieristico? Ci sarà mai vera autonomia professionale?

 

I margini per le competenze avanzate in campo infermieristico ci sono e sono già operanti, abbiamo molti infermieri che hanno oltre la Laurea Magistrale, il dottorato di ricerca o dei master prestigiosi alle spalle, e che svolgono spesso dei lavori importanti di direzione nei servizi infermieristici, che svolgono ruoli importanti nella docenza e nella docenza universitaria, e molti sono Nursing Research infermieri dedicati in maniera specifica al mondo della ricerca in ambito sanitario e infermieristico, e nella ricerca clinica. Diciamo quindi che le funzioni di governo, coordinamento, ricerca e didattica svolte ad un livello avanzato ci sono.

  

Credo che si possa individuare degli spazi diversi ad esempio al campus biomedico di Roma c’è un ambulatorio per i pazienti stomatizzati gestito e diretto da infermieri, c’è tutta una serie di servizi concreti diretti da infermieri ed è bene e necessario che sia così. Quello però che io interpreterei in modo diverso è la parola “autonomia” professionale.

 

Se per autonomia si intende il fatto di svolgere il proprio lavoro nella specificità e nella sua struttura infermieristica in modo autonomo, devo dire che sono tanti gli infermieri che lo fanno. Se per autonomo si intende però un qualcosa del tutto separato e scollegato da quello che sono gli altri ruoli della sanità, io mi auguro di no.

  

In realtà io lo auguro a tutti, compresi i medici i fisioterapisti e dietisti di riuscire sempre più e sempre meglio a costituire delle equipè capaci di convergere e capaci di lavorare per obiettivi, dove ognuno assume la propria autonomia nel campo delle proprie competenze specifiche, però poi ha delle interfacce di collaborazione che sono a garanzia del paziente, dell’efficienza del sistema, della sicurezza e della qualità nell’assistenza.

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