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Editoriale

Fratelli di polvere

di Monica Vaccaretti

Mi basta che li tirino fuori anche se non sono più vivi. Sono le parole che sento al tg da un sopravvissuto per strada, che resta impietrito davanti al suo cumulo di macerie. I palazzi intorno continuano a collassare alla minima scossa di assestamento. Le fronde degli alberi oscillano ma non è il vento. I suoi cari sono seppelliti, vivi o morti, sotto la sua casa di poco cemento armato e tanta sabbia. In un altro angolo frantumato del paese, il fotografo francese Aden Altan dell'Agenzia Afp ha colto un padre, mano nella mano di sua figlia. È rimasta solo una mano intatta, attaccata ad un braccio molto bianco che fuoriesce da un letto schiacciato e da un lenzuolo rosa. Mi chiedo come si possa sopravvivere a questo. E dove vanno a finire le lacrime quando non ce ne sono più. Con cosa si pianga, dopo.

Mi chiedo perché la terra tremi generalmente di notte

Anche stavolta, erano le 4.17. Una notte come tante, quasi l'alba quando il sonno è ancora profondo e forse si sogna. La vita di decine di migliaia di persone si è sgretolata, collassando insieme agli edifici. Tutti insieme, nello stesso istante tremante. Un'ecatombe. Secondo le ultime stime delle Nazioni Unite, in un istante si sono sbriciolate oltre 50 mila vite. È un bilancio mostruoso che potrebbe raddoppiare, ha ammonito Antonio Guterres.

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità il numero dei feriti è incalcolabile. Ed i dispersi ancora non si trovano. Bisogna rimuovere ogni masso per trovarli tutti. Di fronte all'enormità della catastrofe, il Direttore Generale Ghebreyesus ha dichiarato che è un disastro straziante, mentre gira in mezzo alle rovine tra il confine turco e siriano. Sembra il Big One, penso, ma non è la California. È l'Anatolia e la terra abitata dai ribelli siriani. La situazione umanitaria è disastrosa. Ai danni del terremoto si aggiungono la fame, il freddo dell'inverno, le malattie. Si temono epidemie.

Gli analisti descrivono il terremoto del 6 febbraio scorso come il peggiore negli ultimi cento anni. In nessun'altra parte del mondo si è verificata una devastazione simile. Per la magnitudine registrata, per l'energia distruttiva pari a 130 bombe atomiche e per le caratteristiche architettoniche ed urbanistiche delle città colpite.

Vengono ora arrestati i costruttori edili per far tacere le polemiche e la rabbia popolare per la mancanza di norme antisismiche e per la negligenza sulla sicurezza degli edifici. In ogni caso i sismologi hanno dichiarato che la Turchia si è spostata di tre metri a sinistra e la faglia nei pressi dell'epicentro è una voragine sconquassata che fa paura. Il terremoto deve avere urlato nel boato che in genere lo precede.

Carne che precipita insieme al cemento. Sangue e calcestruzzo

Malte, intonaci, mattoni, soffitti, pareti, pavimenti. Mobili. Immobili. Suppellettili. Superstiti in qualche bolla di aria. E di spazio. Protetti dal corpo di una madre o di un fratello. Salvati, avvolti in coperte. Tirati fuori, tirando. Seppelliti in fosse comuni. Riusciamo a sentire tutto questo mentre lo vediamo dalle nostre case intatte? Riusciamo a pensarci?

Mi chiedo come sia lavorare in un setting del genere, con un casco a proteggere solo la testa e ad illuminare lo scenario di terremoto. Aspettare, prima di intervenire, che la scena sia messa in sicurezza quando di sicuro, dentro e sopra un cumulo di macerie che continuano a tremare, non c'è niente. La scena è sicura, dove?

Mi chiedo come sia incanulare una vena tra i detriti, dentro spazi angusti e bui scavati per raggiungere il ferito. Mi chiedo come sia far passare una tavola spinale, abbattere un uomo ed immobilizzarlo, portarlo via in mezzo ad ali di uomini che parlano la lingua della gioia per avercela fatta a salvarne ancora un altro, generalmente di molto piccolo come un neonato o un bambino.

Forse hanno gli angeli. Caricarlo su un'ambulanza che si dirige verso qualche ospedale da campo, perché gli ospedali sono crollati insieme alle case e alle scuole. Mi chiedo come sia emozionarsi di fronte a questa tragedia, standoci in mezzo dal vivo e non da remoto. Come si possa partire e stare in missione senza crollare.

L'adrenalina e gli ideali tengono in vita chi va a soccorrere. Ma l'impatto emotivo è indescrivibile come si fa fatica anche a raccontare, ha dichiarato una funzionaria Who volata sul luogo per verificare la situazione e coordinare gli aiuti. Non ci sono parole, solo mani da muovere, teste che ragionano bene nell'emergenza e schiene buone.

A sette giorni dal devastante terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria sono già sul posto ed operative numerose squadre di soccorritori, provenienti da ogni parte del mondo. Anche il Burundi si è mobilitato inviando un team di soccorritori specializzati per estrarre i superstiti ed aiutare ad evacuare. Tra loro si chiamano fratelli di polvere.

Sono fratelli di polvere anche gli uomini del contingente italiano di soccorritori che ha raggiunto le province turche. Il quartier generale della protezione civile italiana è ad Hatay, nel sud. La professionalità dei nostri fratelli di polvere è riconosciuta a livello internazionale. Provengono da diverse regioni d'Italia e hanno portato strumentazioni altamente specializzate e sofisticate. Sono medici, infermieri, vigili del fuoco con ambulanze e materiale sanitario.

La protezione civile europea, che coordina gli stati membri dell'UE, ha inviato personale sanitario e vigili del fuoco. Stati ed associazioni umanitarie nazionali ed internazionali si sono mobilitati prontamente con l'invio di aiuti umanitari e di uomini addestrati a fronteggiare emergenze di questa devastante portata. Certamente ci vuole cuore per andare a soccorrere, quel che serve è soprattutto competenza ed addestramento. Servono braccia forti unite alla capacità. Sugli aerei partiti di notte da tanti aeroporti si sono imbarcati persino centinaia di cani, addestrati al salvataggio. Per salvare uomini ed animali. Si salvano i simili e i dissimili.

A 168 ore i fratelli di polvere lavorano senza sosta, avvicendandosi in turni

Ma quando il lavoro è immane, il sonno non si prende e si perde. Sono fratelli di polvere anche tutti gli uomini del posto che stanno aiutando i soccorritori internazionali a salvare la loro gente. Ad ogni salvataggio miracoloso il cuore ha un movimento sussultorio ed oscillatorio, come la terra. Il dolore da quelle parti si misura in un istante che, dopo, dura una vita. La speranza si conta guardando l'orologio, minuto dopo minuto.

Silenzio dopo silenzio, quando i soccorritori chiedono anche agli uccelli del cielo di tacere per riuscire a sentire segnali di vita sotto le macerie. Vanno a caccia dei vivi con il geofono, localizzandoli prima di scavare con le mani e con le ruspe. Passano in rassegna ogni cumulo di macerie, poi vanno oltre se tutto tace. La speranza finisce così. Il fratello di polvere è un uomo normale che ad un certo punto, chiamato al dovere per le sue competenze avanzate, molla la sua normale mansione lavorativa in un setting normale e lascia a casa la famiglia.

E va a fare un essere umano che salva altri umani. Si ricopre di polvere, la respira. Si ferisce le mani a furia di togliere mattoni. Si ferisce il cuore ad ogni disseppellimento che finisce in un sacco. Si spacca le ossa pur di tirar fuori corpi incastrati che sembra impossibile disincastrarli. Piange.

E quando tutto finisce, quando non ci sono più ore e restano solo le macerie, torna a casa. Si scrolla la polvere dalle casacche gialle, arancioni, blu o rosse che finiscono in lavatrice o van buttate tanto sono lacere. E riabbraccia la sua famiglia. La polvere sottile della sua umanità si deposita dentro, come fa la polvere che cade verso il basso. E resta con lui nei suoi giorni tornati normali. Certe polveri bisogna sentirle sulla pelle per capirle. Non gliele toglie nessuno. Lui è stato laggiù, dentro le immagini.

Ditemi se questo non è un uomo. Adesso sono oltre 170 ore. Il tempo non è ancora finito. E i fratelli di polvere continuano ad avvicendarsi. Chi arriva, chi parte. Chi torna. Mi chiedo quante ore tiene un orologio dopo un terremoto.

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