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Editoriale

Squid Game per infermieri

di Giordano Cotichelli

La realtà dell’istituzione totale rappresentata in Squid Game ci ricorda qualcosa di molto conosciuto all’interno delle organizzazioni sanitarie in cui viviamo. L’assenza di nomi, in nome della riservatezza, come pazienti o come operatori, scelta che rafforza la spersonalizzazione e identifica l’individuo in base al ruolo sostenuto: paziente, oss, infermiere, medico, direttore generale, etc. tutti in lizza in un grande game in cui per far carriera e passare a mansioni meno faticose, o assumere quelle più prestigiose, evitare compiti di sorta o emergere ad ogni costo, vale tutto. E il suo contrario.

Perché Squid Game ricorda la struttura della sanità italiana

Squid Game riesce ad essere la perfetta traduzione del motto latino: mors tua vita mea

È la serie tivù, targata Netflix, ai primi posti delle classifiche in 90 paesi del mondo. Prodotto pregevole della scuola di cinema sud-coreana, riesce a mescolare sapientemente denuncia sociale con narrazione filmica intensa e mai banale. La trama, se si vuole, è abbastanza semplice.

Qualche centinaio di disperati, 456 per la precisione, sommersi da debiti di ogni sorta, vengono arruolati per cimentarsi in una serie di giochi infantili, tanto conosciuti quanto mortali. Chi rimane vivo è destinato a vincere un montepremi che promette di risolvere tutti i suoi guai finanziari. L’ambiente dove si svolge la storia è quello di un’isola in cui la popolazione è nettamente divisa in due.

Da una parte ci sono gli ospiti, i giocatori, che nei momenti di riposo alloggiano in locali simili a quelli di una grande caserma. Vestono tutti con delle tute bianche e verdi su cui è riportato il loro numero identificativo. Ogni volta che si devono spostare per l’inizio di un nuovo gioco attraversano ambienti colorati fatti di archi, porte e scale che si incrociano, in una prospettiva che ricorda molto da vicino le visioni oniriche dei quadri di Escher.

L’altra metà della popolazione è composta dallo staff, vestito con tute rosse e con il volto coperto da maschere nere (simili a quelle della scherma) su cui campeggia una figura geometrica: cerchio, triangolo, quadrato.

Ogni figura contraddistingue nettamente ruoli e funzioni, compiti e gerarchie. Il cerchio rappresenta gli operai, il triangolo i soldati e il quadrato i manager. Non sono contrassegnati da numeri visibili, anche se presenti all’identificazione tramite appositi scanner. Lo staff deve sottostare a poche, ma inviolabili regole, fra le quali quella di non togliersi mai la maschera e di non rivolgersi ad un superiore (manager) senza essere interpellato.

L’ambiente ricostruito, per la trama distopica della serie tivù, è quello proprio di un’istituzione totale composta da un mondo separato dal resto della realtà circostante, con le sue leggi e una parte della popolazione (staff) che decide della vita dell’altra parte.

Ci sono quelli della linea di produzione (operai), i quadri intermedi (i soldati) e i dirigenti (i manager). Su tutti veglia una sorta di Direttore Generale: il frontman, che governa e regola il gioco per conto, e a favore, di qualcuno più in alto di lui.

Il termine "squid" significa calamaro e si rifà ad un gioco molto conosciuto in Corea in cui due avversari si fronteggiano, anche in maniera violenta, per conquistare o difendere un’area di gioco, che raffigura in maniera stilizzata, appunto, un calamaro. In Squid Game le storie si susseguono l’un l’altra lungo le nove puntate della serie, mescolando egregiamente amicizia e rivalità, amore e sesso, odio e rancore, compassione e competizione, potere e rinuncia. Nulla è scontato, l’amico di oggi sarà l’avversario da eliminare domani. Anzi, fra poco, appena inizia il gioco.

Molti commentatori hanno paragonato la serie televisiva ad una grande metafora di denuncia delle disuguaglianze sociali prodotte dal capitalismo. Una presa di posizione non nuova per la cinematografia sud-coreana che l'ha vista di recente, vincere con il film Parasite, ben quattro premi oscar: miglior film, miglior film internazionale, migliore regia (Bong Joon – Ho), miglior sceneggiatura originale, mancando la miglior scenografia e il miglior montaggio per il quale era ulteriormente candidato.

Nel caso di Parasite, è la vita degli emarginati, degli esclusi, di coloro che vivono nel sottosuolo e che per un momento cercano un attimo di felicità; a tutti i costi. È l’anima sudcoreana di denuncia di un paese ricco che vive le forti contraddizioni e differenze sociali, il montare della povertà e dell’esclusione in una società in cui la competizione e la vittoria, la menzogna e la ricchezza sono tutto. Ma non per tutti. Anzi per pochi. E pochi saranno i vincitori del capitale finale, ricchissimo, messo in premio in Squid Game.

Conquistarlo non sarà facile, in un percorso che sottolineerà, puntualmente, tutte le brutte cose di questo mondo: dallo sfruttamento lavorativo alle differenze di genere, dal dominio maschile all’esclusione dei deboli, dei vecchi o dei malati. Squid Game riesce ad essere la perfetta traduzione del motto latino: mors tua vita mea, in salsa di mercato, ovviamente, e parla dell’anima più profonda di questa società, della sua organizzazione, della sua essenza più crudele che il mondo filmico sudcoreano mostra molto prossima alla nostra società.

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