Nurse24.it

COVID-19

Se il pranzo di Natale è il problema principale

di Giacomo Sebastiano Canova

Al 7 dicembre 2020 in Italia si contavano 60.606 persone che sono state chiuse in sacchi anonimi così com’erano vestiti e seppelliti senza poter essere accarezzati e salutati dai propri cari. Sessantamilaseicentosei volti sorridenti di padri, madri, figli, nonni, zii, cugini, amici e conoscenti morti nella solitudine che questa pandemia causa. Sessantamilaseicentosei persone alle quali nessuna persona a loro cara ha potuto tenere la mano nel momento dell’ultimo respiro. Sessantamilaseicentosei persone che, forse, avrebbero preferito non litigassimo su pranzi e cene di Natale. Perché avrebbero preferito essere sedute alle loro tavole. Magari, per un anno, senza la vicinanza dei loro affetti. Ma, quantomeno, vivi.

Un paio di riflessioni sul Natale ai tempi del Covid-19

La gestione della salma è uno degli aspetti più importanti per coloro che per lavoro sono costantemente e quasi quotidianamente a contatto con la morte. Se già durante la vita della persona i professionisti della salute orientano il loro agire nel pieno rispetto del suo corpo, al momento della morte le azioni che si mettono in atto seguono una sorta di rituale volto a preservare al massimo la dignità e l’integrità di quel corpo senza vita.

La persona viene spogliata e accuratamente lavata e curata, ricoprendola nuovamente con i vestiti che indosserà nel momento in cui verrà salutata da tutti coloro che, in vita, hanno avuto modo di vivere una parte di percorso assieme a lui. Il rispetto della morte e dei morti è sempre stato radicato nella nostra cultura personale prima che professionale. Questo perché maneggiare un corpo senza vita rappresenta uno dei momenti più delicati e profondi della nostra esistenza ed è un momento che ci pone di fronte a numerose riflessioni, dalle più banali alle più profonde.

Poi, però, è arrivata la pandemia da COVID-19. Una violenta pagina di sofferenza e morte che la nostra professione non viveva da anni. Dall’inizio dell’anno, l’agire professionale è profondamente cambiato e ora i sanitari si trovano a lavorare in condizioni che sino a qualche mese fa erano inimmaginabili. In questo, la gestione della salma della persona deceduta per COVID non segue più quel rituale che ne esaltava l’umanità e il rispetto. Riportando le indicazioni ministeriali, si può notare la glacialità di queste frasi e di queste azioni, se solo si pensa a cosa avveniva solamente poco tempo fa in tema di manipolazione e sistemazione della salma.

Il personale sanitario deve provvedere all’isolamento del defunto all’interno di un sacco impermeabile sigillato e disinfettato esternamente per ridurre al minimo le occasioni di contagio durante le operazioni di incassamento.

Sono vietati la vestizione del defunto, la sua tanatocosmesi, come qualsiasi trattamento di imbalsamazione o conservativo comunque denominato, o altri quali lavaggio, taglio di unghie, capelli, barba e di tamponamento.

Dopo l’incassamento il feretro, confezionato diversamente in funzione della destinazione, è chiuso e sottoposto a disinfezione esterna sia superiormente, sia lateralmente che inferiormente.

Traducendo queste righe, ogni volta che una persona affetta da COVID-19 decede, il suo corpo viene chiuso all’interno di un sacco così com’è: non viene lavato o pulito, non viene spogliato, non viene curato. Viene però cosparso di disinfettante. Il tutto senza che possa essere visto da famigliari, amici, conoscenti e da tutte le persone che in vita hanno interagito con lui. Il sacco contenente la salma viene quindi consegnato agli addetti funebri, che lo trasporteranno alle celle e lo incasseranno direttamente, procedendo poi alla disinfezione della cassa.

Al 7 dicembre 2020 in Italia si contano 60.606 persone che sono state chiuse in sacchi anonimi così com’erano vestiti e seppelliti senza poter essere accarezzati e salutati dai propri cari.

Sessantamilaseicentosei volti sorridenti di padri, madri, figli, nonni, zii, cugini, amici e conoscenti morti nella solitudine che questa pandemia causa.

Sessantamilaseicentosei persone alle quali nessuna persona a loro cara ha potuto tenere la mano nel momento dell’ultimo respiro.

Sessantamilaseicentosei persone che, forse, avrebbero preferito non litigassimo su pranzi e cene di Natale.

Perché avrebbero preferito essere sedute alle loro tavole.

Magari, per un anno, senza la vicinanza dei loro affetti.

Ma, quantomeno, vivi.

Commento (0)