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Studenti Infermieri

Le mie lacrime insieme ad un padre per la morte del figlio

di Redazione

La morte è qualcosa a cui non ci si abitua. La si tiene lontana il più possibile, dal corpo e dalla mente, ma quando arriva, sconvolge a stravolge tutto. Nessun genitore dovrebbe sopravvivere ai propri figli e quando questo accade, la morte sembra avere dei progetti ancora più tetri del comune. Ci ha fatto i conti Claudia, studentessa di infermieristica, che racconta la sua prima volta con la morte di un paziente.

La mia prima volta accanto ad un cadavere

A volte mi vergogno un po’ a dirlo, ma io ho tremendamente paura della morte. Ogni tanto, per qualche strano giro di pensieri, mi balena in testa l’evento morte collegato ad un amico, a un parente o, addirittura, collegato proprio a me.

Mi vengono gli incubi, letteralmente.

Fatta questa premessa, volevo raccontare di quando per la prima volta mi sono trovata a stretto contatto con un cadavere vero e con un parente che lo piangeva. Di un pianto vero.

In tv ne avrò visti a centinaia di cadaveri, tra film, fiction e, ahinoi, telegiornali. È diverso. Molto diverso. Quanto diverso, però, lo capisci davvero solo quando ti ci trovi.

Quel giorno avevo preparato una torta da condividere con gli infermieri e con gli oss del mio turno, un genere di conforto per affrontare il turno della notte, quando le ore sono sempre così lunghe…

Ero in tirocinio in un reparto di medicina generale, uno di quelli in cui al primo anno inizi a farti le ossa, mentre chi ci lavora da una vita ci si spezza la schiena. L’impatto era stato tosto, la fatica che prima, insieme alle mie compagne di corso, immaginavamo soltanto, lì iniziava a farsi capire molto bene.

Superati i primi giorni, con la classica "fifa del novellino", iniziavo a sentirmi sempre più a mio agio, un pochino alla volta. Ho anche smesso di perdermi per i corridoi dell’ospedale in un tempo ragionevole. E la fatica, beh… la fatica, tutto sommato, mi differenziava da chi passava il turno a farsi gli affari suoi.

Questa cosa - quella degli studenti nati stanchi, dico - mi fa imbestialire, ma quasi sempre me la faccio passare. Così, per non perderci io la salute.

Quella sera faceva caldo, un caldo anomalo. Indossata la divisa, mi sono presentata come sempre in reparto per il turno della notte. Sì, noi facciamo le notti anche al primo anno. Ho scoperto che in altre università si comincia a farle dal secondo.

Vi dirò, dormire nel mio letto ancora per un anno non mi avrebbe fatto proprio schifo, ma penso che sia meglio iniziare fin da subito. Togliersi il dente.

Il turno era andato liscio fino a quel momento. Ecco, ho imparato presto una cosa che tutti gli infermieri, più o meno scaramantici, sanno: mai dire “oggi è tranquilla”, perché questo farà automaticamente scatenare eventi apocalittici.

Ecco, appunto. Nel giro di poco, due emergenze e un morto.

Praticamente una routine per un ospedale, ma era la prima volta che vedevo tutto quel caos in reparto. Un caos diverso da quello del mattino, tra visite, parenti e tutto il resto.

Sarà che per la prima volta mi sono trovata a comporre una salma.

Ricordo ancora perfettamente la cura con cui ho staccato ogni singolo elettrodo da quel corpo. Per assurdo, avevo più paura di fare del male ad un cadavere che ad una persona viva

Non sono riuscita a dire una parola, mentre la mia infermiera tutor mi mostrava in maniera automatica le cose da fare. Non ho capito se quello fosse il suo modo di “difendersi”, ma quello che aveva assunto non mi sembrava un atteggiamento adatto alla situazione. Ho avuto la sensazione che maneggiasse un manichino. Non so, proprio non mi è piaciuto.

Potrai vederne anche migliaia in una carriera, di cadaveri, ma alla morte non ti ci puoi abituare, mi son detta. Io non mi ci voglio abituare, non voglio diventare glaciale come è stata lei.

Ma non è finita qui.

Ricordo benissimo anche la goccia di sudore gelido che mi è partita dalla base della nuca ed è scesa giù, giù, giù, lungo tutta la spina dorsale, quando è arrivato il parente del morto.

Era un uomo di circa 70 anni. Era il padre.

Un padre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio

Lo dicono sempre tutti, l’ho sentito tante volte ed è anche quello che quel signore mi ha detto poco prima di tornarsene a casa, ricurvo su sé stesso. Ma è stato quello che c’è stato prima che mi ha segnata tanto. Ero rimasta sola, con la salma e con il padre. L’infermiera era andata ad aiutare il collega con l’altra emergenza.

Parlaci tu col parente, mi ha detto. Parlaci tu?! E cosa si dice in questi casi??

Vi dico solo che ho pianto insieme a quel padre anziano. Non ci siamo detti molto, qualcosa ho farfugliato, ma francamente non ricordo nemmeno benissimo cosa.

Però so di aver fatto un paragone, forse stupido. Ho pensato a quanto è straziante il dolore di un genitore che perde il proprio figlio quando è ancora un bambino, con tutto quello che non ha potuto vedere, coprire, mangiare, vivere.

Ho immaginato questo genitore giovane, che ha perso un figlio giovanissimo e poi ho guardato quel padre anziano, che piangeva la morte di un figlio poco più che quarantenne. Ho provato una sensazione di rispetto profondissimo misto a malinconia. Qualcosa che non avevo mai provato prima, mi ha attorcigliato i visceri.

Non so descrivere bene né perché né per come, ma è stato devastante. Mi ha fatta piangere talmente tanto che davvero non sono riuscita a dirgli nulla di sensato.

Sono felice di essere riuscita a non scappare via e di essere rimasta lì, con lui. Ma credo di non aver ancora finito di piangere, perché ogni volta che ripenso a quei momenti la lacrima mi riparte senza controllo.

Alla morte non ci si abitua, non ci si può abituare. L’amore di un padre per un figlio non si può quantificare e il dolore di un padre per la morte di un figlio, quel dolore, non si può consolare

Claudia, studentessa infermiera

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