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12 maggio

Una giornata speciale per molti, per tutti

di Giordano Cotichelli

Se ha senso pensare al 12 maggio degli infermieri, ha senso pensare agli infermieri come professionisti che gettano ponti verso chi ha bisogno, che incontrano la solitudine e la sofferenza, la disperazione e la miseria e cercano di fare qualcosa, di risolvere, di accompagnare. E questo lo fanno tutte e tutti. Gli infermieri del Sud America che emigrano verso gli Stati Uniti in cerca di un reddito migliore, o quelli dell’Africa verso i paesi ricchi occidentali. Lo fanno le infermiere che accudiscono con pochi mezzi, in ambulatori di fortuna, popolazioni malate e povere. Lo fanno anche molti colleghi e colleghe in Italia (assieme a tutti coloro che lavorano nel sistema di welfare nazionale) cercando di garantire ogni giorno un’assistenza degna di questo nome, anche quando mancano i farmaci, o ti danno materiale diverso, scadente, anche quando non viene riparata una porta o sostituito uno strumento rotto da mesi, perché il budget non lo permette. Buona festa a tutte le colleghe e i colleghi che vedono che la distanza fra il paese legale è sempre maggiore dal paese reale in cui lavorano. Buona festa a chi lavora per lasciare aperti porti e non solo.

Ospedale militare di Selimiye, uno sguardo alle origini

Mentre pigramente si sta levando il sole, in direzione Sud-est, il profilo dell’orizzonte dall’altra parte del mare si fa meno incerto, rischiarandosi delle prime timide luci dell’alba che rompono il velo della bruma che quasi costantemente avvolge il paesaggio.

Se si volge lo sguardo a sinistra, la Torre Galata si presenta come un vigile guardiano della città che lentamente si sta svegliando, tra le vie e i saliscendi, al di là del Canale del Corno d’oro, dei quartieri di Beyoglu, la genovese Pera.

Ormai la nebbiolina mattutina si è pressoché diradata e il profilo delle due città poste al di là del Bosforo si è fatto più netto. A destra c’è Kadikoy, l’antica Calcedonia, mentre a sinistra si allarga lungo le rive del canale l’odierna Uskudar, più nota come Scutari.

Entrambe le località, assieme a Beyoglu costituiscono il distretto urbano di Istanbul. Non c’è viaggiatore, cronista, storico o semplice turista che non abbia subito il fascino della metropoli turca, capitale europea di una storia continentale millenaria.

Dalla penisola che prese il nome di Bisanzio e poi di Costantinopoli, al di là del mare, c’è la parte asiatica del distretto e, ben visibile, il complesso militare di Selimiye, una caserma costruita tra il XVIII e il XIX secolo.

Non è possibile visitarla se non dietro appuntamento, per un solo giorno la settimana (il sabato), e unicamente per una sua piccolissima parte che ospita il Museo di Florence Nightingale.

Selimiye

Selimiye infatti è il luogo dove gli inglesi attivarono l’ospedale militare, dietro concessione del sultano, per prestare cura ai feriti in arrivo dai campi di battaglia della Guerra di Crimea.

La sua capienza in posti letto, allora, prevedeva molte centinaia di posti e riuscire a gestirla di certo era un duro lavoro. Specie nei confronti di soldati che provenivano da un teatro bellico (Sebastopoli) distante quasi seicento chilometri in linea d’aria.

Ciò nonostante esso rappresentò lo scenario di fondo su cui in seguito si sarebbe costruito il mito della signora della lampada, colei che viene considerata la moderna fondatrice dell’infermieristica e che operò a Selimiye con altrettante 38 colleghe. Probabilmente qualche infermiera o infermiere di più era presente.

Magari del posto, al fine di governare meglio i bisogni materiali e logistici quotidiani. E magari per fare il “lavoro sporco” quotidiano: il giro dei letti, l’igiene dei ricoverati, accudire le stanze – dietro gli ordini impartiti dalla brava e solerte matron britannica e dalle sue compagne di avventura.

Insomma a fare l’infermieristica probabilmente c’era qualche persona in più delle sole 39 infermiere inglesi: qualche militare inglese di secondo rango, qualche vivandiera francese – ancora si chiamavano così le donne factotum della Grande Armée – e molti “infermieri generici” oppure “Oss” turchi, siriani, armeni, greci, bulgari, albanesi, e serbi; qualche ebreo, qualche libanese e, perché no? Anche qualche italiano, figlio dei genovesi di Pera, che ancora alle soglie del XX secolo, era abitata da una colonia di connazionali – gli Italo-levantini – di circa 12.000 unità.

Se semplicemente osservando Selimiye si potesse rendere storia reale quello che la verosimiglianza della logica costruisce assieme all’immaginazione, una parte della storia infermieristica si arricchirebbe ulteriormente.

Anche in memoria dell’opera portata avanti da Mary Seacole, infermiera giamaicana, figlia di un capitano scozzese che in Crimea giunse con suoi propri mezzi e fu solo molto tempo dopo ricordata per le sue gesta di donna e di infermiera.

A ricordo anche, se si vuole, di Dasha (Darya Lavrentyevna Mikhailova), infermiera “nemica”, russa, figlia del popolo, che prestò la sua opera per soccorrere non solo i militari, ma anche i civili russi vittime dei sanguinosi bombardamenti francesi, britannici, piemontesi e turchi.

Ieri come oggi si bombardava, come in Yemen o in Syria, in Libia o in molti altri luoghi. Allora, un giovane ufficiale di artiglieria, disgustato dall’orrore della guerra e dalla sofferenza delle vittime, lasciò la carriera militare, divenne pacifista e libertario e si mise a scrivere per farsi testimone del suo tempo. La sua opera più nota fu Guerra e pace, e lui si chiamava Leone Tolstoj.

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