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Editoriale

Cospito e gli infermieri

di Giordano Cotichelli

Dal 20 ottobre scorso il detenuto anarchico Alfredo Cospito sta facendo lo sciopero della fame contro l’istituto del 41 bis cui è stato sottoposto dal maggio scorso, applicato ad altri 728 detenuti attualmente1. Al momento in cui si scrive sono passati 109 giorni. Un bruttissimo record che rischia di rimanere un riferimento scientifico per studi futuri. Le condizioni del detenuto sono tali che si ipotizza un prossimo ricovero ospedaliero, dopo essere stato già trasferito nelle scorse settimane dal carcere di Sassari a quello di Opera (MI) per una migliore assistenza sanitaria.

Una vicenda brutta che sta mostrando il peggio della società italiana

Il carcere che uccide e la giustizia che si accanisce, hanno perduto la loro battaglia

Una vicenda brutta che sta mostrando il peggio della società italiana rappresentata da proclami giustizialisti, strumentalizzazioni politiche, orrori mediatici e giudiziari e progressivo imbarbarimento delle coscienze.

In tal senso la prima cosa da affermare è il richiamo ad un atto di umanità che impedisca la perdita di una vita.

Non esiste battaglia politica o fermezza istituzionale che possa costruirsi preventivando, auspicando, o peggio, restando indifferenti, alla morte anche di una sola persona, come nel caso di Alfredo Cospito, e ad ogni modo sempre considerando le migliaia di vittime che ogni giorno ci sono in Ucraina, o nelle troppe guerre in giro, o sul lavoro, o superando un confine, o nei drammi della miseria sociale. Chi ha il potere di salvare Alfredo Cospito lo faccia, prima che sia troppo tardi.

A quanto detto va aggiunta la questione strettamente legata al regime del 41 bis, e più in generale delle carceri italiane. La Giunta dell’UCPI (Unione Camere Penali Italiane) in data 1 febbraio ha richiamato la natura crudelmente inutile del 41 bis dove, a scelte di sicurezza e punitive, nate in particolare per sostenere la lotta contro la mafia, si affiancano limitazioni come:

Vietare a quei detenuti di poter fisicamente abbracciare, pur con la dovuta sorveglianza, i propri familiari; di non poter scegliere liberamente i libri da leggere; di non poter cucinare in cella; di avere per tutta la durata della detenzione una sola ora di aria al giorno; di non poter appendere quadri ai muri, ed altre sadiche, stupide e violente misure di tal genere, umilia ad un tempo la dignità del detenuto e la credibilità democratica e costituzionale dello Stato2.

Certo si potrebbe obiettare che, ad esempio, personaggi come Matteo Messina Denaro meritano tale trattamento. A tale proposito è però necessario sottolineare due aspetti. In primo luogo, bisogna chiedersi come mai il mafioso possa essere restato per trent’anni tranquillamente in latitanza e se questo fatto non sia in realtà un j’accuse ad un contesto contro cui sono necessari ben altri strumenti che il 41 bis.

Inoltre, va da sé porsi l’ulteriore domanda sulla natura del Bel Paese, troppo spesso garantista verso i colletti bianchi e giustizialista verso gli ultimi, mostrando una muscolatura giuridica che fa torto al Cesare Beccaria del XVIII secolo. Un paese civile, con una classe politica e delle istituzioni moderne, sano nella sua struttura portante, dovrebbe intendere la giustizia in termini diversi dalla semplice vendetta che riporta solo alle leggi del taglione.

La questione è più complessa di quanto non lo sia già la vicenda di Alfredo Cospito. Le condizioni del sistema carcerario italiano fanno torto ad un paese che vuole dirsi progredito. Nel 2022 si sono registrati 84 suicidi; numero venti volte superiore a quello relativo al mondo libero. Uno ogni 670 detenuti. Così scrive il “Sole 24 ore”3.

A questi vanno uniti poi i 200 morti per altre cause registrati all’interno degli istituti penitenziari italiani. Valori così alti non si avevano dal 2009, con la cifra di 79 decessi per suicidio e una condizione di sovraffollamento che portò l’Italia ad essere condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea4.

Attualmente il numero di detenuti nelle carceri italiane è di quasi 57.000. Una totalità che supera il limite di capienza e la reale disponibilità di posti con un sovraffollamento di quasi 9.000 unità. Antigone e molte altre associazioni che si interessano della condizione dei detenuti lo stanno denunciando da tempo. Inoltre, la condizione propria dello stato delle celle mostra come la vita nelle patrie galere sia estremamente difficile fra spazi ridotti, servizi igienici disponibili e assistenza sanitaria.

Nel 39% degli istituti il parametro dei 3 mq calpestabili non è rispettato, il 44% delle celle è privo di acqua calda, il 56% è senza doccia e nel 10% dei casi il riscaldamento non funziona. In tale quadro generale s’impone una visione diversa della narrazione mediatica fatta di alcune rivolte scoppiate nelle carceri in epoca Covid, o anche delle più recenti riguardanti il carcere minorile “Beccaria” di Milano.

Sul piano sanitario la situazione è ulteriormente grave

Sempre traendo i dati dell’Osservatorio di Antigone pubblicati dal “Sole 24 ore”, il disagio mentale, legato a importanti patologie psichiatriche o alla tossicodipendenza, è molto presente fra detenuti, a fronte di una ridotta disponibilità di ore di colloquio con professionisti del settore. Nella migliore delle ipotesi l’azione farmacologica cerca di sopperire ai tanti problemi esistenti, con tutto quello che ne consegue.

A tutto ciò si unisce poi la carenza di personale di sorveglianza e assistenziale. Il Nursing Up rivela che in Campania ci sono 189 infermieri per 6.471 carcerati5. La denuncia continua proprio in relazione alle strutture lombarde. Ad Opera si registrano 31 infermieri su una previsione di quasi il doppio (56), mentre sono 17 quelli a San Vittore, 8 a Bollate e appena 2 al Beccaria6. Ad Opera, racconta Mimma Sternativo della Fials: ci sono quattro sezioni, con due reparti di medicina, uno di 70, l'altro da 80 posti, e poi ci sono due padiglioni per 600 persone, tutte bisognose di assistenza, somministrazione di farmaci, cure e medicazioni7.

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