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Editoriale

Pasqua 2024: l’eterno passaggio. Chiuso

di Giordano Cotichelli

Se Pasqua significa suggellare collettivamente un momento di passaggio, una transizione necessaria e difficile, un cambiamento verso un futuro migliore, guardandosi attorno viene da rilevare come molti passaggi siano negati, come lo zoppicare della transizione diventi condizione eterna di insicurezza, paura, sottomissione e perdita di ogni piccolo anelito di speranza verso il futuro.

Meglio essere asociali che disumani. A Pasqua, e non solo

bambina davanti porta chiusa

Se Pasqua significa suggellare collettivamente un momento di passaggio guardandosi attorno viene da rilevare come molti passaggi siano negati.

Il termine “Pasqua” è fra quelle parole che, da sempre, segnano sul piano etimologico, culturale e religioso la storia umana.

O almeno quella di una delle aree in cui si sono sviluppate e succedute società di vario tipo da qualche millennio a questa parte, strette fra il Mar Mediterraneo e la Mezzaluna fertile della Mesopotamia.

Il termine si lega dunque a diverse lingue: pesah (ebraico), pasah o pishā (aramaico e aramaico-giudaico), peshā (siriaco) fino al greco e al latino πασχα e pascha. La radice di pashā poi si ritrova anche in arabo.

In ogni versione linguistica il termine veicola l’idea di saltare e zoppicare e, sostanzialmente, traduce il significato di passare oltre, spostarsi da un luogo all’altro (saltare) con tutta l’instabilità del momento di passaggio (zoppicare).

Nell’uso comune è modulato dalla narrazione biblica della fuga degli ebrei dall’Egitto, resa possibile con la traversata del Mar Rosso. Da qui, come spesso accade a tutte le religioni, viene ripresa nella tradizione cristiana a sugellare il momento di passaggio di Gesù nella resurrezione. Ogni anno la celebrazione pasquale cade in giorni diversi legati, secondo quanto stabilito dal Concilio di Nicea del 325, alla domenica seguente la prima luna primaverile.

I più si accontentano di verificare sul calendario se può legarsi ad altre festività, al fine di godere di vari giorni di riposo senza consumarsi troppe ferie. I soliti trovano le scuse di sempre, per poter restare a casa ed appioppare notti, reperibilità, turni indesiderati di vario tipo agli ultimi arrivati, a qualche infermiere anarchico ed ateo, o ai generosi di ogni dove, letti come i c******i di turno.

Sono sempre gli stessi che considerano le scadenze religiose come occasione per profittare del profittevole. La religione, insomma, vista come occasione o argomentazione per prevaricare sugli altri, quasi un formato tascabile di piccole e meschine crociate personali fini a sé stesse, tanto pronti a difendere i propri valori religiosi, quanto in grado di non provare alcun tipo di rispetto verso le religioni altrui.

Gli esempi in terra italica sono decisamente numerosi, ma basta andare alla chiusura mentale, all’ipocrisia vigliacca e al razzismo culturale, manco tanto velato, manifestato contro la dirigente scolastica di Pioltello (MI) che ha ben visto di concedere, nel secondo fine settimana di aprile, un giorno di vacanza scolastica per venire incontro alle esigenze dei tanti studenti che festeggeranno allora la fine del Ramadan.

Una scelta di integrazione e lucidità pedagogica ed organizzativa, non per nulla lodata dal Presidente Mattarella. Ma si sa, per un pugno di voti cosa non si farebbe o non si direbbe, ed il paese surreale - quello dei politicanti - mostra ancora una volta la sua enorme distanza dal paese reale, quello di chi vive, ama e manda avanti la baracca.

Certo, se Pasqua significa suggellare collettivamente un momento di passaggio, una transizione necessaria e difficile, un cambiamento verso un futuro migliore, guardandosi attorno viene da rilevare come molti passaggi siano negati, come lo zoppicare della transizione diventi condizione eterna di insicurezza, paura, sottomissione e perdita di ogni piccolo anelito di speranza verso il futuro.

Restano chiusi i passaggi che portano alla pace e al lavoro, ad un paese in cui non si sentano più il suono degli allarmi antiaerei o le urla delle madri che piangono ed urlano il ritorno dei loro figli in divisa dentro le bare di stato, avvolte in sanguinolente bandiere patriottiche.

Chi piange i propri figli vittime di guerre, fame, genocidi, stratificazioni e caste sociali di ogni tipo, alza il proprio urlo infinito destinato ad essere colonna sonora di un passaggio nel deserto che non si compirà mai. Qualcuno, senza pietà, nega il passaggio, nasconde le mappe, vira la rotta di una nave in fuga, senza vedere come questa Pasqua si tinga dei colori e dei suoni della sofferenza infinita.

La vulgata italiota recita: “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi” e i telegiornali di ogni rete sono già pronti a mostrare le perenni gite fuoriporta del lunedì di Pasquetta, senza peraltro mostrare le enormi masse umane che stanno accalcate fuori da quella porta, in un’attesa eterna di un passaggio che non avverrà mai.

La sensazione di disagio diventa così un’indesiderata compagna che ti chiama a rifuggire l’orrore umano, isolandoti dalle brutture di soverchierie di ogni tipo, quando credi ormai perduta ogni possibilità di cambiamento, ogni passaggio, ogni trasformazione.

Lo scrittore svedese Stig Dagerman disse, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale: Meglio essere asociali che disumani. Un fondo di verità nelle sue parole non è difficile da trovare, ma prima che la rassegnazione rapisca ognuno di noi, se questa Pasqua, come altre, può avere senso, non solo certo per chi crede, allora bisogna fare in modo di completarlo questo passaggio, di non arrendersi alla rinuncia, di allungare la mano oltre l’orlo dell’imbarcazione per poter cercare, a chi sta affogando, di facilitare la traversata del Mar Rosso ai fuggiaschi di oggi: in Palestina e in Ucraina, dall’Africa o dalla miseria di ogni periferia delle metropoli delle ricchezze sanguinarie.

Non resta dunque che chiudere con alcuni versi del citato Stig Dagerman come consapevolezza dell’oggi e augurio per il domani, due tempi da attraversare uniti e solidali. Ecco di seguito la poesia tratta dalla raccolta: “Breve è la vita di tutto quel che arde”, edizioni Iperborea.

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