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cinema e spettacolo

Gassmann porta gli ospedali psichiatrici giudiziari sul palco

di Daniela Berardinelli

Una rappresentazione che colpisce le menti, i vissuti, parlando e mostrando la realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari, recentemente chiusi secondo la direttiva della Legge 81 del 2015, con una ambientazione aversana e una mescolanza di dialetti dal napoletano al marchigiano. Questo e molto altro è “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, regia di Alessandro Gassmann.

L’attore Daniele Russo: Nessuno è veramente libero

daniele russo

L'attore Daniele Russo

Questo spettacolo di Alessandro Gassmann ci svela una vecchia, ma ancora attuale, macchia della nostra società e ci spinge a una riflessione più profonda, che valica il confine tra malattia e normalità, tra soggetto sano e malato. Impossibile non pensare al capolavoro del regista Miloš Forman, scomparso recentemente, anche se la compagnia è partita da una profonda analisi del testo originale tratto dal romanzo di Ken Kesey, lasciandoci sospesi tra realtà e immaginazione, tra cinema e teatro. A dividerci dal palcoscenico una fitta rete a maglie strette che tutto lascia vedere e filtrare, ma che contemporaneamente ci divide da quella dimensione in scena. Siamo spettatori di un manicomio criminale, un microcosmo separato dal nostro, ma in realtà molto vicino seppur non tangibile. Esiste infatti una separazione tra noi che siamo ”normali” e loro che sono “pazzi”, in una scena dove la patologia psichiatrica è sinonimo di ghettizzazione, esclusione e privazione.

Abbiamo intervistato l’attore Daniele Russo, in arte Dario Danise, criminale dall’accento e dialetto napoletano che sceglie la strada del ricovero presso l’ospedale psichiatrico giudiziario per evitare quella del carcere. Il suo personaggio simula e rivendica una malattia psichiatrica per ricercare una libertà, che si rivelerà peggio della reclusione fisica carceraria. Non gli verrà negata, infatti, solo la libertà fisica di uscire e muoversi secondo volontà, in quegli spazi così rigidamente vincolati dal controllo di suor Lucia, ma anche e soprattutto quella di espressione mentale, verbale che sottende e urla denuncia, indignazione per la condizione dei “pazzarielli” che lo circondano. La domanda da cui dobbiamo partire è: Chi è veramente il malato?. Le prospettive si capovolgono, chi credeva di essere malato e volontariamente si ricovera per vergogna e incapacità di vivere e affrontare le barriere del mondo esterno si riscopre libero e forte di agire la propria condizione, chi ostenta ferocemente normalità diviene invece specchio di un’ottusità mentale, che va ben oltre i limiti della patologia.

Daniele perché avete scelto di esplorare questa tematica?

Siamo partiti dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ci piaceva l’idea di raccontare una storia che parlasse di libertà e umanità, che ne rappresentasse tutte le sfumature, e la realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari ci sembrava una giusta metafora di questa condizione.

Cosa conoscevi di questa realtà prima di realizzare lo spettacolo?

Il mio è stato inizialmente un approccio distaccato, avevo un’idea astratta di questo tipo di realtà, non ho mai avuto alcuna esperienza in merito, questo spettacolo è stato un’occasione per confrontarmi con un mondo che altrimenti non avrei conosciuto.

Ogni persona è diversa, sta ad ognuno di noi compiere il proprio lavoro con amore

In che modo hai studiato questo mondo?

Siamo stati ospiti di diversi ospedali psichiatrici giudiziari, alcuni chiusi, altri occupati, visto documentari in merito, letto testi specifici, ci siamo confrontati anche con psichiatri e infermieri che lavorano in quest’ambito. Abbiamo raccolto molte testimonianze di pazienti, familiari e studiato i loro vissuti esperienziali. Abbiamo incontrato poi diverse persone, anche al termine dello spettacolo, che ci hanno raccontato la loro esperienza e questo per noi ha rappresentato una grande ricchezza.

Come ti sei sentito a interpretate questo personaggio?

Innanzitutto mi sono domandato chi fosse veramente sano e chi veramente malato e mi sono reso conto che stavo attraversando un sottile e labile confine, perché anche coloro che vengono definiti malati, pazzi in realtà sono vittime di una prigionia a base di fobie, chiusure verso il mondo esterno, che quanto mai tornano ad essere attuali in una società competitiva come la nostra, che spesso non ti fa sentire all’altezza o provare un’inadeguatezza tale da privarti della libertà di uscire all’esterno e di confrontarti con gli altri. Ad ogni spettacolo ho sentito di aderire molto a questo personaggio, forse troppo, ho vissuto sulla mia pelle ogni sera la sua indignazione, la sua voglia di rivalsa, la necessità di compiere la sua trasgressione all’interno di quell’ambiente così ostile.

Che rapporto ha il signor Danise con suor Lucia?

Siamo due mondi completamente opposti, due linee rette parallele che mai si incontrano, ma che sono costrette a occupare uno stesso spazio. Non vi è rispetto, dialogo, comprensione per un rapporto che mai può essere allo stesso livello, quello tra curante e curato.

Che tipo di infermiera è suor Lucia? Ci è apparsa una suora, una madre, una padrona che ti priva della vita in nome di una cura che lentamente ti uccide...

Sì, è una figura ottusa che esprime la sua forza per mezzo di un rigido controllo, rappresenta l’obbligo al rispetto di regole cieche e disumanizzanti.

Chi pensi che sia l’infermiere di oggi?

Ogni persona è diversa, sta ad ognuno di noi compiere il proprio lavoro con amore, cercare di offrire un senso di protezione, e non di abbandono o di esilio, a coloro che sembrano averla persa. Immagino non sia semplice dover assistere una persona con patologia psichiatrica, credo che implichi un lavoro relazionale intenso e faticoso, il modo di comportarsi, di relazionarsi è sempre una scelta dell’individuo che sceglie come vivere con se stesso e con gli altri.

La persona affetta da patologia psichiatrica è veramente libera secondo te oggi?

Non siamo veramente liberi noi, figuriamoci le persone con patologia psichiatrica che ogni giorno devono confrontarsi con questo fardello.

Cosa vorresti che trasmettesse il vostro spettacolo?

Vorrei che tramettesse un’emozione, uno sgomento, un’indignazione verso quello che è stato e non deve più essere, ma soprattutto che aprisse uno spazio di riflessione verso questa tematica, che lasciasse una suggestione nello spettatore, affinché non venga apprezzata solo la qualità del testo e della recitazione, ma anche la problematica che si tratta, perché credo che il teatro non sia solo una forma di mero intrattenimento culturale, ma un potente mezzo di espressione di libertà e di umanità.

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