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Nurses in Gaza. Cosa vuol dire assistere in tempo di guerra

di Giordano Cotichelli

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È una brutta estate questa del 2014. Nel centenario dello scoppio della 1ª Guerra Mondiale sembra che lei, la guerra, sia la sola e vera padrona delle nostre vite. In questi giorni nella striscia di Gaza i bombardamenti fanno strage di civili. Una striscia di terra, strategie di guerre, terrore e morte che piovono dall’alto e rubano vite, speranze, futuro, pace. Una scuola viene bombardata.

Un ospedale viene bombardato. E allora viene da chiedersi cosa vuol dire essere un infermiere nella striscia di Gaza. Cosa vuol dire prestare assistenza a una madre che ha perso un figlio, a un anziano che si è ritrovato senza casa e senza famiglia? Cosa vuol dire essere infermiere a Tripoli, a Damasco, a Bagdad o a Kiev, in paesi devastati dalla guerra civile. O meglio, dato che un infermiere è un essere umano ed è anche un utente di un servizio sanitario, un cittadino di un paese, un padre, una madre, forse la domanda da porsi sarebbe: “Cosa vuol dire assistere in tempo di guerra?”.

 

Un caro collega, che è stato in Afghanistan con una organizzazione umanitaria, mi spiegava che in una zona di guerra, quando devi fare il triage di chi assistere e chi no, ci sono tre livelli da prendere in considerazione: quello dove i problemi non sono urgenti, e quindi la persona può aspettare, quello dove la situazione è evidentemente senza via d’uscita, e quindi qualsiasi intervento sarebbe destinato non solo al fallimento, ma anche a togliere risorse importanti agli altri, e infine il livello di mezzo, quello dove devi intervenire, dove capacità, conoscenze, competenze, bravura, expertise, tempo, risorse, e poi ancora tempo e poi ancora risorse – fanno la differenza. E lui mi diceva che non era poi così difficile capire il meccanismo di questo modo di lavorare. In breve riusciva ad essere padrone di tecniche e saperi e trasformarle in azione. Quello che lui non riusciva a capire era come si poteva dividere una vita in tre livelli di intervento dove, a seconda di dove stavi, il tuo futuro sarebbe stato decisamente diverso.

 

È la guerra!”, alla fine la sua considerazione finale si chiudeva con una frase lapidaria che sintetizzava la dimensione invalicabile oltre la quale alcun tipo di assistenza può essere autonomamente e liberamente decisa. Ma allora cosa vuol dire essere infermiere a Gaza? Credo che solo le colleghe e i colleghi che stanno lavorando sotto le bombe possano rispondere. Una risposta che ci farebbe bene conoscere, che ci insegnerebbe molto e che farebbe sentire meno soli chi sta subendo una mattanza militare, ultima espressione di una diplomazia che sembra essersi arresa alla “logica” delle armi e delle vittime civili.

 

Insomma questa del 2014 è proprio una pessima estate! E ci ricorda bene quale potesse essere il clima cento anni fa alla vigilia della Grande Guerra che portò al massacro 20 milioni di uomini, gettò le basi per un dopoguerra di dittature e guerre civili fino all’epilogo tragico della Seconda Guerra Mondiale. In molti ricordano il sacrificio dell’infermiera inglese Edith Cavell, fucilata dall’esercito tedesco perché accusata di spionaggio. Pochi la storia dell’infermiera ebrea, lituana e anarchica, Emma Goldman imprigionata per aver manifestato negli Stati Uniti contro la guerra.

 

Fra pochi giorni sarà il centenario della dichiarazione di guerra (28 luglio) dell’Austria-Ungheria alla Serbia, a seguito dell’attentato di Sarajevo. Poco più di venti anni fa, in quella stessa città cosmopolita e multiculturale si consumava uno dei più terribili assedi della storia europea del ‘900. Non passava giorno che le immagini dei media non parlassero della guerra in corso.

 

In una di questa si distinguevano momenti di vita e di lavoro all’ospedale della capitale bosniaca. In un passaggio si poteva vedere, stese ad asciugare su di un telo verde sopra un radiatore, alcune siringhe di plastica monouso: camicia e stantuffo erano disuniti, come si faceva una volta con quelle di vetro. Sicuramente i/le colleghi/e di Sarajevo possono immaginare bene cosa vuol dire essere infermieri a Gaza. Sì, decisamente è una brutta estate questa del 2014. 

 

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