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tesi di laurea

Infermiere, la professione vista da un sociologo

di Marco Alaimo

Laureato magistrale in Sociologia all’Università degli studi di Milano-Bicocca, Marco Antonio Iuliano ha scritto una tesi dal titolo “L’assistenza ai tempi dell’aziendalizzazione della sanità: uno sguardo alle trasformazioni della professione di infermiere”.

Intervista al sociologo Marco Antonio Iuliano

marco antonio iuliano

Marco Antonio Iuliano

Marco Antonio Iuliano ha raccolto le esperienze degli infermieri. E arriva a dire che “con le maggiori conoscenze in campo clinico e con il maggior tempo passato con il paziente, gli infermieri possono diagnosticare una appendicite laddove non ci arriva il medico, o mettere in discussione una diagnosi del medico, ma tutto ciò non deve far perdere di ista l’importanza dell’assistenza al paziente”.

Quali elementi cruciali emergono dalla sua tesi?

L’elemento cruciale della mia tesi è rappresentato dal processo di frammentazione che la professione di infermiere ha subìto, portando ad avere diversi tipi di infermiere, con diversi ruoli, diverse specializzazioni, conoscenze e competenze. Non esiste più una figura di infermiere identificabile tramite il “chi fa cosa”, con la sua lista di compiti definita, così come accadeva ai tempi del mansionario. Abbiamo l’infermiere case manager, l’infermiere specializzato in cure palliative, in wound-care, l’infermiere più “tecnico” nel reparto dialisi che deve prestare particolare attenzione al rapporto con il paziente onde evitare alterazioni emodinamiche, l’infermiere di radiologia (che in una foto finita sui giornali vestiva la giacchetta “non disturbare”), l’infermiere di famiglia ecc... Altri elementi che sono emersi riguardano la necessità di potenziare le strutture nel territorio per evitare il sovraffollamento dei pronto soccorso e per permettere una continuità delle cure, in quanto spesso il paziente viene dimesso prima del dovuto. Emergono anche dalle interviste differenze riguardo al reparto in cui si lavora, in quanto in alcuni sei legittimato ad essere più autonomo e a fare cose che in altri reparti al contrario non ti è legittimo fare, così come riguardo al contesto lavorativo, in particolare il rapporto con gli altri colleghi. In poche parole, l’incongruenza tra quanto scritto “nella carta” e quanto avviene nella praticità di tutti i giorni! Ad esempio, gli infermieri devono chiedere permesso al medico pure per somministrare una tachipirina, ma un infermiere del 118 in ambulanza può somministrare medicinali e addirittura intubare. Gli infermieri sentono il peso di una autonomia non riconosciuta, di un gap tra lo scenario che viene presentato durante i corsi e la realtà.

"Ho fatto un’esperienza di tirocinio in automedica…la banalità che il nostro Stato acconsente è che io come infermiera di 118 posso uscire di notte in automedica, senza il medico, il medico è in centrale e riceve le informazioni da me, quando io sono a casa del paziente piuttosto che in strada … questo vuol dire che il paziente è da intubare, io posso intubare il paziente, io posso somministrare dei farmaci … e la stessa persona che lavora di notte nel 118, quando lavora in ospedale se il paziente ha la febbre a 37.8 non può dargli una tachipirina senza prescrizione medica … come se in ospedale diventasse un deficiente, deve chiamare il medico e dire posso dargli una tachipirina?” "

Aziendalizzazione del sistema sanitario pubblico qual è il supporto dato dalla professione infermieristica?

L’aziendalizzazione ha carattere standardizzante, secondo quanto è emerso dalle interviste. Secondo alcuni infermieri che hanno lavorato presso reparti quali cure palliative, il modo standardizzato di registrazione dei dati del paziente non è in linea con le esigenze del reparto. Non si ha l’esigenza di avere tante informazioni di un certo tipo sul paziente quanto il bisogno di esplicitare quello che è un percorso di un rapporto che si fa con il paziente. In questo senso, secondo quanto riportato, la forma del racconto di quello che sta succedendo col paziente, che tu abbia una cartella informatizzata o una cartella cartacea, non fa così tanto la differenza. Se è vero che altri infermieri al contrario, definiscono la standardizzazione come uno strumento valido per garantire un livello minimo di qualità dell’assistenza, allora non sarebbe meglio mantenere si questo livello di standardizzazione comune, ma affiancare a questo altri strumenti, metodi per reparti con esigenze specifiche come quello di cure palliative? Gli infermieri che sono a contatto con i pazienti riescono a capire queste sfumature e questi bisogni specifici, ma a volte devono stare attenti a non comportarsi allo stesso modo! Un infermiere che si lamenta che i ritmi di lavoro sono accelerati in questi tempi di aziendalizzazione della sanità, che non si ha abbastanza tempo per la relazione col paziente, e poi afferma come sia inutile curare i novantacinquenni ormai spacciati, che è meglio per loro morire in casa, che è meglio dare spazio in ospedale ai giovani, ragiona in termini economicisti e non è tanto distante dall’essenza dell’aziendalizzazione!

Una buona formazione alla professione deve essere in grado di operare su tre fronti: sapere, saper fare e saper essere. Cosa può mancare a una professione fortemente in evoluzione, ma spesso legata a dinamiche del passato come spesso accade tra gli infermieri?

Trovare un equilibrio tra questi tre elementi. C’è una tendenza tra le nuove leve ad affacciarsi al mondo del lavoro con maggiori conoscenze teoriche, capacità di diagnosi, spirito d’iniziativa e di aggiornamento, tutte qualità fondamentali facenti parte della sfera del “saper essere” per una società e una professione in continuo cambiamento, ma un po’ penalizzati riguardo il “saper fare”, ossia le manovre meramente tecniche, in quanto per loro sono previste meno ore di tirocinio, ragione per cui sarebbe necessaria la laurea quadriennale. Tra le vecchie leve al contrario, c’è una tendenza, e ripeto tendenza, a ragionare per limiti, ad agire entro i limiti, a voler solo eseguire le istruzioni dei medici senza spirito critico riguardo le manovre di entrambi e di spirito di iniziativa.

Quali consigli potresti dare agli infermieri?

Per gli infermieri è importante raggiungere la consapevolezza del ruolo chiave che riveste la loro professione nei confronti dell’assistenza ai pazienti. La laurea e le maggiori conoscenze in campo clinico hanno il ruolo cruciale di permettere loro di mettere in discussione l’operato del medico, come nel caso di manovre considerate dannose ormai dall’evidenza scientifica, andando così a migliorare la qualità dell’assistenza. Un approccio troppo clinico però, rischia di portare gli infermieri a comportarsi come “dottorini”, perdendo di vista ciò che dovrebbe essere la loro peculiarità. Ad esempio, come diceva il dott. Bartoccioni, un paziente colpito da ictus è spesso una persona che necessita di ricostruire la propria vita, di sentirsi al centro del processo di riabilitazione trattato con fermezza ma anche umanità, di sentirsi gratificato, compreso e sostenuto. Secondo Bartoccioni, la “vera” assistenza ai pazienti è nelle relazioni umane, nel comprendere la personalità del paziente, nell'avere un approccio olistico ad esso, con l'aiuto di operatori sanitari che sono stati anche "dall'altra parte" ad insegnare agli operatori del futuro ad assistere i loro pazienti.

Con le maggiori conoscenze in campo clinico e con il maggior tempo passato con il paziente, gli infermieri possono diagnosticare una appendicite laddove non ci arriva il medico, o mettere in discussione una diagnosi del medico, ma tutto ciò non deve far perdere di ista l’importanza dell’assistenza al paziente.

Un consiglio che mi sento di dare a tutte le professioni sanitarie, è quello di tenere regolarmente degli incontri in cui si possa discutere insieme dei problemi, ma soprattutto di far luce su alcuni aspetti. Ad esempio, mi è capitato di sentire nel corso della mia ricerca e della mia attività di volontariato, medici che non sapevano che gli infermieri hanno una laurea, oppure oss che vivevano male la delegazione di compiti da parte di infermieri, non sapendo la responsabilità e il rischio che corrono quest’ultimi nel farlo. Un’altra questione che si è spesso ripresentata, è quella di infermieri che chiamano i pazienti anziani “nonnini”, pensando a un modo gentile di approccio ma che in realtà è di carattere spersonalizzante e che può suscitare la rabbia del paziente stesso che non si sente rispettato. A proposito di ciò citai nella tesi Franz Kafka, che della spersonalizzazione del soggetto nelle istituzioni ne ha fatto il punto cruciale delle sue opere, quando nella sua opera “Il Processo”, i due funzionari del Tribunale chiamano il signor K. “il nostro deboluccio”.

Questa accelerazione dei tempi che si è verificata, secondo gli intervistati, con l’avvento dell’aziendalizzazione della sanità, non aiuta. Essi affermano come non ci sia il tempo per fare tutto come si vorrebbe, con calma, per chiacchierare e ascoltare il paziente. Si ha inoltre paura di lasciare le cose indietro agli infermieri dei turni successivi, portando alla ribalta anche la logica dell’efficienza, che nasce dall’esigenza di evitare problemi in termini di efficienza facendo prevalere le preferenze e le istanze dei fornitori e/o degli acquirenti/finanziatori su quelle dei pazienti, chiamati “utenti”.

"Da quando siamo aziende, ma non hanno capito che non possiamo produrre, c’è sempre meno attenzione verso il paziente … i pazienti sono fonte di guadagno. Il direttore della struttura prende le decisioni perché dice -eh così si guadagna di- chi purtroppo prende le decisioni è gente che non lavora nel settore…non conosce le richieste e le tempistiche, ad esempio - si può fare al DLCO senza la spirometria di base-per cui acquisti e scelte sbagliate…magari se ce l’avesse chiesto…poi spendono quattrini in apparecchiature inutilizzate, se mi manca il burro non vado a comprare la carne…nella sanità quello che frega sono gli interessi…bisogna spiegare a chi comanda che non siamo aziende che possono produrre, per cui non mi puoi parlare di tempistiche strette, non siamo una catena di montaggio…se bisogna dare un’assistenza non puoi pensare sempre ai costi"

"Io preferivo prima, mi sembra tutto troppo veloce, non c’è spazio per il confronto col malato, si è orientati al produrre, produrre, produrre a discapito della qualità e del rapporto con le persone, mi manca tantissimo…i reparti sono grossi, 50 malati, le risorse sono quelle che sono e devi starci"

Secondo Maurizio Lozzi, la stragrande maggioranza delle tensioni, delle incomprensioni, dei disagi e dei conflitti riscontrabili nelle relazioni interpersonali nasce in sostanza da perverse dinamiche di “non ascolto”. L’unico rimedio, secondo lui, alle relazioni frettolose e alle relazioni impulsive di cui siamo vittime è il “rallentamento del ritmo delle relazioni, così da poter “incontrare l’altro”, identificare il suo punto di vista ed arrivare ad una mediazione pacifica dei conflitti. Conflitti che hanno origine a causa di risorse limitate contese, bisogni fondamentali insoddisfatti o valori diversi non condivisi.

Come diverse ricerche dimostrano, il paziente desidera avere la certezza di essere ascoltato, si aspetta sicurezza personale e professionale da parte delle figure sanitarie. Situazioni non chiare, come la questione dell’autonomia di cui si è parlato precedentemente, possono portare a frustrazione e insicurezza che si possono riversare sul paziente.

Ecco perché ribadisco come sia importante istituire degli incontri dove medici, infermieri, e altre figure si possano confrontare ed evitare un atteggiamento autoreferenziale, ri-definendo le situazioni a proprio piacimento.

Come evolverà il rapporto salute-profitto? Le opinioni sono contrastanti e la sfida continua.

"Profitto e salute non possono andare d’accordo? Dipende da chi gestisce il tutto … se io struttura devo trovare materiale scadente per risparmiare e fare assistenza è ovvio che non si va d’accordo … però se io struttura cerco di trovare il materiale giusto, per l’impiego giusto, al momento giusto e per il paziente giusto, allora profitto e salute vanno d’accordo … in linea di massima è così … con un po’ di intelligenza possono andare d’accordo"

"Ridurre la spesa per la sanità si può, perché tanti sprechi ci sono … abolirei gli avvocati che istigano i pazienti a fare causa, perché fanno delle cause talmente assurde, il medico deve fare mille esami altrimenti viene denunciati…la spesa che spendiamo per gli stranieri, non penso che se noi andassimo all’estero avremmo questo trattamento…non so delle tasse su queste cose qua"

"L’aziendalizzazione della sanità è stata una cosa abbastanza terrificante, si è voluto dare un valore economico alla salute, al tuo benessere, come se potesse avere un valore … prima dell’aziendalizzazione tentavi di ospedalizzare il paziente finché poteva andare a casa da solo…ora hanno diminuito drasticamente i tempi di recupero, il paziente lo fai andare avanti indietro senza ospedalizzazione, indipendentemente che questo possa o meno … il valore della salute non è solo economico, alla fine non si riduce tutto in soldi…vuoi mettere cosa vuol dire stare bene? Gli daresti tu un valore economico? Cioè cinque minuti di benessere quanto valgono? valgono dei soldi? Vinci un miliardo alla lotteria, sarà la stessa cosa che stare bene?"

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