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12 Maggio. Burnout: evoluzione del fenomeno e il disagio dell'infermiere

di Domenica Servidio

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PESARO. L’interesse e l’amore per la professione, così come l’impegno quotidiano, non sempre riescono a proteggere l’individuo dal logorio professionale, dalla sensazione di non farcela più, dalla disillusione che si matura con il passare degli anni, quando la realtà sostituisce i sogni e gli ideali professionali. L’esperienza lavorativa insegna che nelle professioni di aiuto un certo grado di stress è ineliminabile, e talvolta può rappresentare un segno di sensibilità e di vicinanza all’altro, a condizione però di rimanere entro certi limiti e di ricevere attenzione e risposte adeguate dalle organizzazioni. Diversamente il malessere trascurato rischia di portare l’operatore a instaurare barriere emotive che determinano un eccessivo distacco dal paziente, fino ad arrivare alla sindrome del Burnout.

Il termine burnout traducibile in italiano con «bruciato», «esaurito», «scoppiato», esprime con un’efficace metafora il bruciarsi dell’operatore e il suo «cedimento psicofisico», rispetto alle difficoltà dell’attività professionale. Esso esprime il non farcela più, il malumore e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e in particolare di quelli che operano nei servizi sociosanitari. (Amchin, J., Jonathan Polan, H. 1986). 

L’espressione burnout ha fatto la sua prima apparizione nel gergo del mondo dello sport nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o di mantenere quelli acquisiti. Dalla fine degli anni ’70 il termine burnout è stato utilizzato per indicare una forma particolare di stress lavorativo specifico delle “helping profession”, le professioni dell’aiuto che comprendono figure come infermieri, medici, psicologi, insegnanti/educatori, assistenti sociali, poliziotti, vigili del fuoco, psichiatri etc. (Maslach e Leiter 1997).

Tra le professioni d’aiuto, quella dell’ infermiere è sicuramente una delle più studiate quando si parla di burnout. Il lavoro a turni, i ritmi intensi delle corsie d’ospedale, il tipo particolare di relazione che si instaura con le persone sono solo alcune delle caratteristiche che rendono questa professione particolarmente vulnerabile nei confronti di tale problematica.

Il burnout è una sindrome caratterizzata da tre sintomi o fattori particolari, inizialmente identificati e misurati (Maslach e Jackson, 1981), attraverso l’utilizzo di strumenti psicometrici come la Maslach Burn-Out Inventory (MBI) e sui quali negli anni si è verificato un sostanziale accordo scientifico: l’eusarimento emotivo, la depersonalizzazione e un sentimento di ridotta autorealizzazione. La sindrome da burnout può essere paragonata a una sorta di virus dell’anima, perché sottile, invisibile, penetrante, continua, ingravescente. Se non si interviene determina l’exitus volitivo ed energetico, non solo lavorativo, ma dell’intera persona.

Se da un lato stare accanto ai pazienti è gratificante, perché offre la possibilità di esprimere diversi sentimenti, dei quali quello altruistico è soltanto il più scontato, dall’altro è anche molto faticoso: il confronto continuo con la sofferenza può diventare insostenibile in quanto comporta un forte impegno anche sul piano emotivo, che rischia di esaurirsi nel tempo. 

Occuparsi della sofferenza degli altri in contesti organizzativi via via più complessi, che implicano richieste di assistenza sempre maggiori senza dare la possibilità di elaborare le situazioni, diventa ancora più dispendioso e può indurre gli operatori sanitari a innalzare delle vere e proprie barriere difensive tra loro e il paziente. Come conclusione”si spegne ogni passione”.

La letteratura scientifica sull’evoluzione del burnout sostiene l’ipotesi che esso sia sostanzialmente un fenomeno sperimentato soprattutto nella fase di socializzazione lavorativa. Diversi studi hanno infatti riscontrato che sono i dipendenti con minore esperienza ad ottenere livelli più alti di burnout e che il rischio di incorrere in tale sindrome è più elevato all’inizio della carriera lavorativa (Maslach, Schaufeli E Leiter, 2001).

L’inserimento nella vita lavorativa appare quindi un momento critico, caratterizzato da un processo di acquisizione e di elaborazione attiva di conoscenze e di competenze che permettono all’individuo di affrontare i compiti e le richieste lavorative. Inoltre Demir e colleghi (2003), sostengono che maturando, i professionisti sviluppano i migliori capacità di adattamento e aspettative più realistiche riguardo agli obiettivi del proprio lavoro.

Altre indagini invece ritengono che il burnout sia mutevole (Savicki e Cooley, 1994). Esso si manifesta pienamente, soprattutto dopo diversi anni di lavoro: chi ne raggiunge alti livelli è più di frequente un infermiere che ha già tanti anni di esperienza alle spalle. Il burnout può assumere dimensioni rilevanti e cercare di prevenirlo o eventualmente attenuarlo rappresenta un obiettivo fondamentale per ogni organizzazione che desideri tutelare la salute dei propri dipendenti e garantire la qualità delle loro prestazioni.

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