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editoriale

Chi sono gli infermieri del domani?

di Daniela Berardinelli

Improvvisarsi nei gesti di cura è facile, quasi ontologico, primario, intrinseco ed inseparabile dall’essere umani, ma essere dentro la cura, soggetto attivo che opera in una relazione di cura, è ben altra cosa. Avvicinarsi tutti i giorni con rispetto ed in punta di piedi ad un uomo che non si conosce, che ovunque vorrebbe essere tranne che lì, che non desidererebbe quel tipo di aiuto ma al contempo ne necessita, non è cosa semplice.

La vera essenza dell’infermiere la comprende appieno solo il suo paziente

L'essere infermiere non è solo una cosa innata, ma si apprende durante un preciso percorso di studi universitario e di formazione

Parlare, adattare il proprio linguaggio alle esigenze altrui, spiegare, stare in silenzio, ascoltare, non è automatico. Intervenire, prendere una posizione, scegliere consapevolmente di non farlo, mettersi nei panni altrui, non è uno scherzo. Tutto questo non è innato, ma si apprende durante un preciso percorso di studi universitario e di formazione sia sul piano professionale che personale.

Scindere poi distintamente l’identità professionale da quella personale non è nuovamente cosa facile. Dentro il lavoro si porta sé stessi, si arricchisce il contesto di cura con la propria personalità, con pregi e difetti e al contempo, senza nemmeno accorgersene, il lavoro ha già plasmato noi. Inavvertitamente, inaspettatamente, anche se si pensava che questo non sarebbe mai accaduto.

Ce ne si accorge subito, dalla prima volta che da neofita si varca una corsia ospedaliera, con indosso un pantalone verde dalla tonalità vivace e una casacca bianca, due tasche grandi laterali, dalle quali trasuderanno fogli e appunti di storie di vita altrui, accompagnate da un’allegra orchestra di penne ed evidenziatori di diversi colori. Non possono mancare poi anche delle forbici, magari un nastro adesivo di carta e, perché no, un orologio appeso al taschino superiore; si sa, meglio non indossare monili. Unghie corte, rigorosamente senza smalto, una mano semplice e pulita per poter accogliere e sentire quelle altrui. Capelli legati per essere ordinati.

Trepidazione per un nuovo inizio e per non sapere cosa si vedrà, se piacerà e se ce la si farà. Questa è una domanda ricorrente, quasi ridondante che ci si pone più volte durante il percorso di formazione e in questo particolare periodo storico ancor di più: sarò in grado?

Basta poi quello sguardo, quella parola, quel gesto, quel silenzio, quel sorriso o quella stretta di mano per capire che si sta percorrendo la strada giusta. Adesso i riflettori mediatici sono puntati sugli infermieri, ma la verità è che la vera essenza dell’infermiere la comprende, per davvero, solo il suo paziente, colui che legge nei suoi occhi, nelle sue mani e nelle sue parole i gesti della cura.

Il farsi carico, prendere in cura, assistere e valutare i bisogni assistenziali di una persona è un processo continuo, dinamico, pieno di imprevisti ed intoppi, dai quali insieme ci si rialza e si va avanti. Perché è proprio questo che fa la differenza, l’essere insieme, l’essere in una relazione che vive nel tempo della cura.

Un tempo dilatato, alle volte ovattato, ma sempre presente. Essere l’infermiere di Pronto soccorso che attende al triage e valuta lo stato di salute dei pazienti nell’immediato non si improvvisa, essere l’infermiere di corsia che accoglie a qualunque ora del giorno della notte ascoltando problemi e pianificando delle soluzioni, anche questo non si fa senza preparazione.

Essere l’infermiere dell’ambulanza che si catapulta sull’urgenza e mette in atto tutte le manovre interventistiche per salvare la vita di qualcun altro si studia caparbiamente; essere l’infermiere dei servizi domiciliari che entra in casa altrui, adeguandosi ai suoi ritmi, alla sua famiglia, al suo contesto e personalizzando il suo intervento non è banale.

Si potrebbe ancora parlare degli infermieri degli ambulatori, che seguono cronicamente i loro pazienti e conoscono ogni minimo dettaglio della loro vita, perché ormai è talmente tanto tempo che si conoscono che sono entrati in confidenza. La relazione di cura è anche sapere quando potersi prendere quella confidenza. È dare del “Lei” per rispetto e mantenere il ruolo professionale, ma anche tenere per mano quel paziente che a breve andrà in sala operatoria per essere operato d’urgenza e dargli del “tu”, dicendo di non preoccuparsi, perché si è lì per aiutarlo e sostenerlo.

È sapere quando poter parlare e quando non serve assolutamente a nulla. È sapere come farlo, è stare accanto ed informare anche i familiari dei malati in preda all’apprensione. È assistere alla nascita, alla vita e alla morte.

Gioire delle conquiste di un’autonomia prima perduta, piangere per le perdite ma, alle volte, anche rasserenarsi per aver lasciato andare rimanendo accanto e pensando a tutti i modi possibili per alleviare quella sofferenza. È parlare anche quando si sa che dall’altra parte c’è solo un sonno profondo, oppure rimanere fermi e in silenzio.

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