L'Infermiere è e deve continuare ad essere responsabile della formazione dei non sanitari, vigilando su tutte le fasi del processo assistenziale a domicilio.
Sulla “questione intramuscolo” dapprima ci furono i farmacisti con un emendamento su ddl. Poi è arrivata la SIGG con il corso alle badanti. E di certo ci sono stati, ci sono, e ci saranno tentativi di trasferire competenze tecniche sanitarie più o meno complesse ad altre figure sanitarie e non.
Bene. Anzi male.
Giusto e doveroso ricondurre il tutto al reato di esercizio abusivo di professione sanitaria (art.348 ccp) quando se ne intravede il caso o perimetrare e vigilare su ciò che le norme descrivono come atti di nostra pertinenza.
Nessuno si tirerà indietro su questo.
Mi piacerebbe fare con voi però alcune riflessioni conscio che potrebbero essere male interpretate ma che ritengo utili per un dibattito interno alla professione.
Tra i tanti interventi che ho letto sui social ce ne sono alcuni che mi hanno molto colpito e che possono essere così riassunti: “i [nome] faranno l'infermiere” e “ho studiato tre anni per fare le intramuscolo”.
In questi due assunti intravedo una crisi importante del nostro specifico disciplinare. Essere, e non fare, l'infermiere è quindi da noi interpretato come colui che pratica una iniezione intramuscolare? E studiare tre anni è finalizzato a compiere degli atti?
Mi chiedo quindi se la connotazione professionale debba necessariamente passare nell’immaginario collettivo attraverso un atto sanitario tra l’altro contendibile. Se la formazione universitaria – anche quella post base vista la progettazione molto “tecnica” di alcuni master - è da noi intesa come mero percorso di apprendimento prestazionale.
Una professione forte lo è quando forte è il suo corpus scientifico disciplinare che la caratterizza e non certo per le prestazioni che è chiamata a compiere o, almeno, la complessità delle prestazioni è resa tale non dalla loro esecuzione ma dal processo scientifico che le rende evidenti e governate.
In altre parole ancora, non è la prestazione andata a buon fine che da sola e scorporata dal resto rende un professionista competente, ma la valutazione che precede quella prestazione, gli esiti di salute che ci si prefigge di raggiungere con quella prestazione e la capacità di misurarli e certificarli.
Pensiamoci.
Non è forse questo quello che critichiamo ai medici? Perché i medici devono aver paura di un infermiere che inserisce un catetere venoso centrale, sutura una ferita, esegue un ecografia?
Abbiamo sempre detto ai medici: non vi toglieremo la diagnosi medica e la prescrizione farmacologica. Eppure questo non è sufficiente a placare un contrasto che perdura ormai da tempo. Ma se guardo al passato anche remoto i medici non hanno certo perso la loro specificità professionale perdendo pezzi di prestazione. O meglio lasciando che venissero contesi. Penso ai prelievi venosi e arteriosi, alle intubazioni.
Negli anni abbiamo fatto nostre queste prestazioni ma cosa abbiamo ottenuto? Al momento il nostro specifico professionale legato alla intellettualità della professione è forse aumentato in virtù di quegli atti? Ma del resto tale problema non si porrebbe se considerassimo gli atti come sanitari e conseguenti alla competenza del professionista e non conseguenti al profilo professionale.
E allora quello che ancora una volta ferisce (non noi ma tutto il sistema salute e la sicurezza dei cittadini) non è l’atto che si tenta di contendere ma l’assoluta mancanza di progettualità, la mancanza di un analisi sugli esiti di salute, la mancanza di una verifica nell’appropriatezza clinica ed organizzativa, che sta dietro quell’atto.
Se penso al corso della FIGG, ad esempio, ciò che mi colpisce è che non ci si sia soffermati su un contenuto secondo me potenzialmente più ambiguo per ciò che ci compete: "il Corso si prefigge i seguenti obiettivi: Capacità di identificazione dei bisogni e delle problematiche fisiche, psicologiche, assistenziali e curative delle persone anziane non autosufficienti".
C'è un bisogno importante sul territorio che è quello di governare i processi sulle cronicità anche e soprattutto attraverso l'educazione dei caregivers (tra cui le badanti rientrano sempre più spesso e a pieno titolo visto lo sgretolatarsi quantitativo e qualitativo della rete familiare).
Non dobbiamo secondo me temere che una badante faccia un intramuscolo a patto che sia l'infermiere il professionista che governa il modello educativo. Che valuti quella badante. Che certifichi l'attribuzione di quegli atti che attribuisce in via transitoria e contestualizzata al contesto domiciliare. Che stili il piano assistenziale in cui inserire quelle attribuzioni. Che verifichi costantemente. E che abbia infine capacità di rimuovere quell'attribuzione quando il caregivers non si dimostra adeguato o se la persona modifica i propri bisogni assistenziali, e che possa quindi attivare reti e percorsi diversi di concerto, ovviamente, con il medico di medicina generale.
Questo approccio nel territorio, nelle cure primarie perlomeno in Toscana, esiste già e rafforza l'identità professionale che non si riconosce in un atto ma in una presa in cura complessa ed autonoma.
Preoccupa in questo caso che il tutto sia confinato in un corso una tantum che non è contestualizzato al bisogno della persona che necessita di un caregiver istruito e che, quindi, appare come un trasferimento professionale di competenze.
Quelle badanti hanno in carico una persona che ha dei bisogni che necessitano una loro formazione specifica o si formano per un proprio bagaglio spendibile a prescindere?
Questa è la domanda a mio avviso che fa da vero spartiacque. Ad esempio corsi sui familiari affetti da SLA dove infermieri insegnano le tecniche infermieristiche esistono e danno forza alla professione. Ma i discenti sono contestualizzati.
A quei discenti non interessa acquisire competenze professionali ma essere messi in grado di agire sui loro cari avendo sempre bene a mente che hanno un infermiere a cui rivolgersi per ogni difficoltà.
Lavorare esclusivamente sul mantenimento e sull’estensione delle sole prestazioni non potrà che farci soccombere prima o poi.
Tra dieci anni faremo le barricate ad altre professioni come fanno adesso con noi quei medici insicuri della loro specificità disciplinare e che confondo l’essere medico (non fare il medico) con l’atto.
Come può un atto, da solo ed in via esclusiva, connotare una professione se non è inserito in un processo metodologico esclusivo di quella professione?
Chi si ricorda l’aneddoto dell’idraulico che chiede 100€ per avvitare un vite e si giustifica dicendo che avvitare una vite costa 1€ e sapere quale vite avvitare 99€? Ecco, avvitare una vite è l’atto contendibile. Sapere quale avvitare, farlo correttamente e verificare che abbia prodotto un risultato è ciò che connota il professionista.
Bisogna avere il coraggio quindi di ragionare, anche destrutturando tutta la teoria che ci è stata insegnata, su cosa è oggi per noi la nostra specifica disciplinare.
Cosa è oggi per noi la nostra area intellettuale? Come si manifesta? Come si dimostra?
Quanto è riconosciuta (a noi per primi) e riconoscibile all'esterno?
Lavorare su questo significherà un domani non solo acquisire sempre più ampie e importanti competenze (anche prestazionali certamente), ma soprattutto non aver paura di perdere quegli atti che non possono e non devono rappresentare una professione complessa ed articolata come l’infermieristica.
Se poi invece decidiamo per acclamazione di essere connotati fortemente agli atti prestazionali sarà comunque una posizione legittima ma che deve farci rivedere tutto il percorso normativo e professionale degli ultimi venti e passa anni.
Nicola Draoli, Presidente Collegio IPASVI di Grosseto
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