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Editoriale

L’infermiere come piccolo eroe del quotidiano.

di Angelo

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L'importante di Bay Max, un robot con un chip intelligente. Potrà mai una macchina sostituire l'uomo?

REGGIO EMILIA. L’immagine sociale dell’infermiere è stata frequentemente modificata nel corso degli anni, più in coerenza del contesto storico-sociale che della reale evoluzione della professione. Poche volte, gli addetti ai lavori, si sono davvero riconosciuti in tale immagine e la sensazione che rimane è, in generale, di una poca conoscenza del ruolo infermieristico.

La letteratura categorizza sei differenti modelli sociali di infermiere: l’infermiere reale, l’infermiere angelo bianco, l’angelo della morte, l’infermiera sexy, la mediatrice terrena, l’infermiere maldestro (Paterniani et al., 2012; Gelsi, 2002).

L’immagine dell’infermiere reale corrisponde al contesto storico di riferimento: partendo dalla lampada di Florence Nightingale, che ha portato e stimolato un primo modo di fare assistenza, passando per Virginia Henderson con la proposta, per la prima volte, di un approccio alla presa in carico strutturato su un modello di riferimento (Lo Monaco, 2007). La Nightingale corrisponde all’immagine sociale di angelo bianco, descritto come eterno consolatore (Gelsi, 2002) che vive in funzione dell’altro. Questa figura si ritrova in un grande numero di film relativi alla prima e seconda guerra mondiale (Paterniani et al., 2012).

In opposizione a questa figura, l’angelo della morte è descritto come un’anima nera in contrasto con la divisa immacolata che percepisce e agisce il proprio ruolo professionale in un deliro malato di onnipotenza (Gelsi, 2002). Il parallelismo con i sepolcri imbiancati, che coprono il nero della morte descritti nei Vangeli, apre un collegamento con la storica figura religiosa dell’infermiera-monaca.

L’analisi di questi elementi mette in evidenza un’immagine duale che si ripropone: l’anima bianca e nera, la figura religiosa con la prostituta. Tale immagine, che ritroviamo nei primi riferimenti storici all’infermiere (Pascucci & Tavormina, 2012), corrisponde nei media all’infermiera sexy. Il collegamento tra questi elementi duali apre a nuove riflessioni: l’anima, intesa come il proprio essere più intimo e la necessità professionale di mettersi in gioco, lavorando per e sulle proprie convinzioni; il donarsi all’altro, nei termini retorici di sacro e profano. La medesima dualità, in contrasto ma in stretta connessione, che si ritrova nei concetti di vita e morte, entrambi centrali per l’infermiere.

Strettamente legata all’immagine dell’angelo, compare la mediatrice terrena che si fa carico dell’altro (Gelsi, 2002), ma sempre relegata a un ruolo secondario, sia nel cast, sia nella storia, dove appare in subordinazione al medico e senza una propria autonomia (Martins Cardoso et al., 2014).

Paradossalmente, la figura dell’infermiere maldestro, nasce in un contesto storico di grande fermento per la professione: sono gli anni della riforma degli ordinamenti didattici (Legge 341, 1990) e dell’abrogazione del mansionario (Legge 42 del 1999). Davanti a un infermiere che passa da esecutore di prestazioni a responsabile dell’assistenza, l’immagine sociale lo vuole maldestro, a volte oggetto di scherno.

Oggi l’infermiere “reale” viene proposto dai media nella versione Nurse Jackie (Gradellini et al., 2013; Paterniani et al., 2012; Gelsi, 2002). Per la prima volta si introduce un’idea di professione complessa che ha bisogno del supporto di sostanze illecite per far fronte alla pressione del quotidiano lavorativo. L’immagine che ne esce è allo stesso tempo forte, nella sua competenza professionale, debole nella scelta delle risorse, poiché sono in antitesi con la mission del proprio lavoro. Viene riconosciuto, nel format, il rischio elevato di burnout, così come la mancanza di strumenti di supporto e strategie di autocura, ma la figura che ne esce non può davvero corrispondere all’infermiere reale.

A prescindere dal genere, l’infermiere appare sotto forme stereotipate di debolezza: la donna come oggetto sessuale o, in generale, debole nel contesto professionale e nella vita privata, l’uomo in una versione caricaturale di omosessuale o maldestro (Gradellini et al., 2013; Lionetti, 2002) .
In questa immagine pirandelliana, di più personaggi che non soddisfano il vero io professionale, dal cinema arriva una proposta, pensata per i bambini, ma corrispondente all’infermiere reale, così come lo conoscono e percepiscono gli infermieri stessi.

Bay Max (Big Hero Six di Hall & Williams, 2014) è una nuova tipologia di robot morbido ed efficiente creato in una scuola per geni di una città immaginaria, con l’obiettivo di “aiutare”. Si attiva a ogni richiesta e si presenta, ogni volta, come “operatore sanitario personale”, in linea con le proposte del primary nursing. Utilizza la progettazione assistenziale come indicato dalle normative: esegue l’assessment ad ogni presa in carico, utilizzando metodologie qualitative e quantitative (scala del dolore) di raccolta dati. Fa diagnosi e progetta un piano di interventi sulla base delle evidenze scientifiche. Risponde all’importanza dell’aggiornamento continuo (Legge 502, 1992; Legge 229, 1999), approfondendo tutto quanto risulta necessario per la gestione del problema di salute. Tuttavia, il processo non termina con l’aggiornamento delle conoscenze, ma da esso parte e si sviluppa in una logica di personalizzazione alle caratteristiche e, soprattutto, alle richieste della persona. La presa in carico si ferma solo alla valutazione della soddisfazione della persona (“non posso disattivarmi se non mi dici che sei soddisfatto”). Nel decorso della storia, Bay Max non si disattiva più, quasi a sottolineare il continuo stato di necessità dell’individuo, dove i bisogni seguono una scala gerarchica multidimensionale (Maslow, 1973).

Il concetto dell’evoluzione continua del sapere risulta necessario, per rispondere alle esigenze di un contesto in continua evoluzione; non solo per quanto concerne lo specifico professionale, ma anche nel dialogo con le altre discipline per acquisire la capacità di vedere il problema “da un’altra prospettiva”.

Informa il paziente, conosce e definisce i farmaci con il principio attivo e si fa carico della persona a partire dalla prevenzione primaria: l’alimentazione, l’esercizio fisico, il corretto stile di vita.

Il lavoro di squadra in equipe multidisciplinare acquisisce un’importanza fondamentale: ogni elemento, nella sua peculiarità, diventa indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo: la ricchezza del singolo che si completa e completa il gruppo.

Anche nei semplici movimenti, è nella ricerca continua dei dati di contesto, con massima attenzione agli spazi propri e dell’altro, riuscendo sempre ad arrivare all’obbiettivo e a non essere invadente o rumoroso, pur con l’immensità della sua mole. Nell’analisi delle risorse, ha sempre ben presente l’importanza del coinvolgimento della rete sociale.

Quando la sua presenza non è necessaria diventa silenzioso, ma sempre vigile e pronto a intervenire. Se la sua figura può sembrare protagonista, nell’evoluzione della storia l’assistito acquisisce sempre maggior importanza, quasi a sottolineare la prioritaria centralità della persona.

L’essenza di Bay Max è contenuta in un chip che passa all’altro, come eredità e punto di partenza per l’evoluzione di nuove conoscenze e competenze. L’expertise, che passa agli studenti e ai nuovi colleghi, è metaforicamente rappresentata con il passaggio, di mano in mano, di questo chip che già all’inizio del percorso, contiene diecimila procedure mediche.

Nella complessità di sapere, saper fare, saper essere e saper divenire che la professione richiede, il rischio di esaurimento fisico ed emotivo è molto alto. Bay Max adotta diverse strategie di gestione del problema: il nastro adesivo, a compensazione del dispendio di energia emotiva, la batteria esterna, quando il problema si fa più complesso ed è necessario staccare e ricaricarsi. Nello specifico del carico emozionale, applica l’ascolto empatico, sempre senza fondersi, né confondersi.

Pur essendo una storia per l’infanzia, il concetto della caducità è ben presente: nella consapevolezza di aver fatto tutto quanto possibile, in scienza e coscienza, risulta essenziale imparare a riconoscere e ad accettare i limiti che caratterizzano l’essere umano.

Non eravamo partiti per fare i supereroi,
ma a volte la vita cambia i tuoi piani”.
(Big Hero Six, 2014).

Paola Capozza - Infermiere di Neonatologia, Azienda Ospedaliera Santa Maria Nuova di Reggio Emilia

Cinzia Gradellini - Tutor e docente del Corso di Laurea in Infermieristica di Reggio Emilia, Azienda Ospedaliera Santa Maria Nuova.

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Bibliografia
- Lo Monaco SE (2007) Percezione del professionista infermiere da parte di degenti ospitati in alcune strutture ospedaliere dello Stato, Io Infermiere, 4, 22-31.
- Martins Cardoso RJ, Garcia da Nascimento Graveto JM, Correia Albuquerque Queiroz (2014) The exposure of the nursing profession in online and print media. Rev. Latino-Am. Enfermagen, 22(1), 144-9.
- Maslow AH (1973) Motivazione e personalità. Roma: Astrolabio.
- Gelsi S (2002) Lo schermo in camice bianco. Proceedings of meeting L’immagine sociale dell’infermiere, 9-18.
- Gradellini C, Idamou S, Lusetti S (2013) L’infermieristica tra etica ed estetica. La professione descritta dai media. Professioni Infermieristiche, 66, 1-7.
- Lionetti R (2002) L’immagine dell’infermiere fra stereotipi e folklore. Proceedings of meeting L’immagine sociale dell’infermiere, 4-8.
- Pascucci I, Tavormina C (2012) La professione infermieristica in Italia. Milano: McGraw Hill.
- Paterniani A, Iacorossi L, Bartolini Salimbesi S, Di Croce A (2012) L’infermiere nella realtà mediatica: un lungo cammino prima di essere riconosciuto professionista. Prevent Res (published on line), 30 (Jul).

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