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editoriale

Naufragare nel nostro mare

di Monica Vaccaretti

Non c'è niente di dolce nel naufragar nel nostro mare. Sa di salato nei polmoni e di sabbia in bocca. La nostra terra, approdo di miraggio per molti migranti naviganti che da decenni partono da lidi stranieri e lontani, l'hanno vista soltanto come un'ombra tra i flutti, nell'ora buia delle 4 del mattino, gridando e sbracciandosi per chiedere aiuto, come hanno testimoniato alcuni pescatori, pronti per uscire a pesca, che per primi sono accorsi sulla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, trovandovi i primi corpi tra la sabbia e gli arbusti.

Non c'è niente di bello nel naufragar nel nostro mare

Ad una settimana dal naufragio di Frontex a cento metri dal litorale calabrese qualche corpo emerge ancora dal fondale

Il vecchio peschereccio - un tipico caicco turco con due alberi per la vela - era partito quattro giorni prima da Smirne e, viaggiando vicino alle coste, seguiva la rotta migratoria verso l'Italia attraversando il Mediterraneo centrale, notoriamente non perlustrato dalle imbarcazioni delle Ong impegnate nel soccorso ai migranti naviganti.

A bordo, sotto e sovracoperta, erano stipati iraniani, iracheni, afgani, pakistani, siriani. I loro Paesi di origine bastano forse a spiegare la disperazione di salire su un guscio di legno ed affrontare il Mediterraneo lungo la rotta dei velieri.

Il nostro mare non è un oceano ma d'inverno, senza la bonaccia, sa essere spaventoso come lo sono solitamente le grandi masse d'acqua in movimento. Sembra che anche i flussi migratori, intesi come grandi spostamenti di individui, facciano paura sulla sponda opposta del mare.

Naufragare nel nostro mare sa di memoria. A ricordo del naufragio restano tre croci piantate sulla sabbia. Qualcuno le ha fatte con i legni incrociati del relitto. E al posto di una corona di fiori sono state inghirlandate con un piccolo giubbotto di salvataggio arancione. Risale al 2013 il peggior naufragio sulle coste italiane quando un barcone con 368 etiopi ed eritrei naufragò a poche miglia dal porto di Lampedusa.

Allora, com'è consuetudine ad ogni tragedia, si promise mai più. Dieci anni dopo si è compiuto il secondo peggior naufragio, considerando il numero delle persone che hanno perso la vita. Se le grandi tragedie si misurano in vite umane perdute, dal 2013 al 2023 è stato comunque uno stillicidio continuo di vite sommerse che non sempre il mare restituisce.

Questi dati e questi eventi che drammaticamente si ripetono ci ricordano che le politiche attuali, così come quelle passate, non sono in grado di affrontare l'arrivo dei migranti in modo strutturato né di garantire salvataggio, assistenza e protezione adeguate.

Non c'è niente di bello per i soccorritori sanitari nell'arrivare sulla spiaggia di Cutro ed imbattersi in settantuno corpi annegati, raccoglierli dalla sabbia e ripescarli dal mare ed avvolgerli nei sacchi bianchi. E togliere la sabbia, anche quella dentro ogni orifizio, prima di ricomporli per le esequie.

Non c'è niente di bello nel coprire i superstiti con la metallina gialla, distinguendo così i sommersi e i salvati, per proteggerli dal vento e dal freddo. E portarli nel centro Cara di Crotone, per la prima accoglienza ed il supporto psicologico. Sono devastati emotivamente per aver perso i familiari. Quando si cade in acqua, non tutti attorno ce la fanno e non tutti tra i cari puoi salvare. Decine di persone sono state ospedalizzate per il trauma dell'annegamento e lo stato di shock.

Non c'è niente di bello nel trovarsi in mezzo a quel che resta di un naufragio, tra legni e poveri averi. Tutto è fradicio e gonfio di lacrime. Tutto è silenzio ed urla. Non c'è niente di bello perché, pur nella bellezza dei loro gesti pietosi ed umani, il personale che accorre sulla scena è spesso volontario, uomini e donne delle organizzazioni di volontariato che, pur avendo un cuore grande, hanno comunque un cuore fragile - di cui occorre aver altrettanta cura - avendo sotto gli occhi questa umanità spiaggiata.

Non c'è niente di bello nel pensare che se ci sono tanti volontari significa che non c'è abbastanza personale sanitario da mandare tempestivamente sul posto nel caso di simili tragedie. La nostra protezione civile sta in piedi grazie a chi dona gratuitamente il suo tempo e le sue energie.

Naufragare nel nostro mare sa di polemiche amare anche durante la doverosa ricostruzione dei fatti da parte della Procura della Repubblica di Crotone che, chiedendo gli atti alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo verso ignoti. Si sta indagando sulla dinamica del naufragio.

Non si sa chiaramente se l'imbarcazione si sia incagliata in una secca durante una tempesta notturna o se sia stata sbattuta dalla forza del mare e frantumata contro gli scogli. Oppure se sia stata distrutta dal peso delle onde e delle troppe persone a bordo. Oltre ad accertare quanto accaduto, si cercano di definire le responsabilità per il mancato soccorso in mare dei naviganti la notte del 26 febbraio scorso, forse per una sottovalutazione del rischio o una mancata attivazione delle procedure Sar di ricerca e salvataggio.

Qualcosa certamente non è stato fatto durante la catena dei soccorsi e l'operazione non è partita nei tempi e nei modi adeguati. Lo scambio di accuse coinvolge il Viminale, il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera denominata Frontex, che per prima alle ore 23 di sabato aveva segnalato alle autorità italiane l'imbarcazione a 40 miglia dalla costa della Calabria.

Non c'è niente di bello nel naufragar nel nostro mare, perché ad una settimana dal naufragio a cento metri dal litorale calabrese qualche corpo emerge ancora dal fondale mentre le motovedette della guardia costiera ne cercano altri al largo. Si stima che i dispersi possano essere oltre cinquanta. I morti sinora accertati sono settantuno, tra cui 14 bambini di età compresa tra gli 8 mesi e i 13 anni e 21 donne.

Le bare sono allineate nel palazzetto dello sport PalaMilone, diventato una camera ardente per il cordoglio dei superstiti e dei crotonesi tra le preghiere dell'iman della moschea locale e il vescovo. Il Dio del cielo scende a mare.

Naufragare nel nostro mare sa di naufraghi, sia che essi siano migranti irregolari o potenziali rifugiati. Ogni naufrago ha il suo nome, non solo sulla bara come un numero identificativo ma anche come una definizione che descrive la loro condizione di navigante. I sanitari, le guardie costiere e gli operatori umanitari che li soccorrono non fanno alcuna distinzione, sono soltanto persone da salvare, da togliere dal mare e da recuperare nel fisico e nello spirito messo a dura prova.

Ma è bene sapere che la legge evidenzia differenze tra richiedenti asilo, rifugiati, beneficiari di protezione umanitaria, vittime della tratta, migranti ed immigrati. Come è ben spiegato nel glossario della Carta di Roma, un richiedente asilo è colui che fuori dal proprio Paese presenta in un altro Stato domanda di asilo per il riconoscimento di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 o per ottenere altre forme di protezione umanitaria.

Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti egli ha diritto di soggiorno regolare nel paese di destinazione. Un rifugiato è colui al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra e viene definito come una persona che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese.

È beneficiario di protezione umanitaria invece colui che, pur non rientrando nella definizione di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra poiché non sussiste una persecuzione individuale, necessita comunque di una forma di protezione in quanto in caso di rimpatrio nel paese di origine sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e massicce violazioni dei diritti umani.

Una vittima della tratta è una persona che, a differenza dei migranti irregolari che si affidano volontariamente ai trafficanti, non ha mai acconsentito ad essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, l'aver dato il proprio consenso è stato reso nullo dalle azioni coercitive o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai danni della vittima. Si specifica che lo scopo della tratta è ottenere il controllo su di un'altra persona ai fini dello sfruttamento (prostituzione, lavoro forzato, schiavitù, asservimento, prelievo di organi).

Mentre un migrante/immigrato è colui che sceglie di lasciare volontariamente il proprio paese d'origine per cercare un lavoro e migliori condizioni economiche altrove e può fare ritorno a casa in qualsiasi momento e in condizioni di sicurezza, un migrante irregolare è colui che ha fatto ingresso in un Paese eludendo i controlli di frontiera, è rimasto dopo la scadenza del visto di ingresso diventando overstayer oppure non ha lasciato il territorio in seguito ad un provvedimento di allontanamento.

Dal 2007 ad oggi risulta che oltre l'80% delle persone che sono riconosciute bisognose di protezione in Italia riceve un permesso di soggiorno per motivi umanitari anziché lo stato di rifugiato. Ogni stato ha le sue leggi e i suoi decreti sull'immigrazione. Ogni autorità competente stabilisce chi può restare e chi se ne deve andare se non possiede i requisiti necessari.

Ma anche il mare ha le sue norme. Anche il cuore. E davvero non è bello naufragar nel nostro mare perché chi ne ha il dovere non interviene, a prescindere dal rischio che viene o non viene segnalato.

Tanto poi a correre e a soccorrere quando ormai è troppo tardi tocca alla gente comune del posto, a cercare di rianimare le vittime di annegamento tocca ai medici e agli infermieri, a fare un lavoro che non si dimentica più quel che si vede tocca ai vigili del fuoco e alle forze dell'ordine, a dare supporto psicologico e sostegno tocca ai volontari.

Naufragar nel nostro mare è anche affare nostro. Della politica - dal governo in carica sino all'Unione Europea e alle Nazioni Unite – e dei cittadini. Politica non è solo l'arte di governo di pochi per tutelare il bene collettivo e guidare la vita pubblica di uno Stato. Politica è anche partecipazione di ciascuno, con l'impegno e l'interesse, alla vita sociale e civile.

Se quanto è accaduto a Cutro non è colpa nostra o non è tutta nostra, è comunque una faccenda che ci riguarda perché in una democrazia significa non sapere o non poter proteggere i fragili e gli ultimi. Come ha dichiarato il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici Filippo Anelli non averli saputi proteggere è un fallimento dei principi scritti nel nostro Codice Deontologico e nella Costituzione.

La tutela della salute passa attraverso il rispetto dei principi di umanità e di dignità di ogni persona umana, qualunque sia il suo nome e la terra da cui salpa, qualunque cosa chieda alle autorità cercando di approdare sulle nostre coste per sperare, come cittadino del mondo, di chiamarla, un giorno, casa.

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