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editoriale

Infermieri tra disoccupazione e reddito di cittadinanza

di Giordano Cotichelli

Una delle azioni più attese del governo in carica è quella relativa all’attuazione del reddito di cittadinanza. La mancanza di un lavoro è trasversale fra professioni e generazioni e per tale motivo non si può non darne lettura anche attraverso uno sguardo infermieristico. In questo qualcuno potrebbe chiedere con forza che cosa abbiano da dire in tema di disoccupazione gli infermieri, che in fondo sono degli statali protetti e che non rischiano di finire in strada come tanti altri lavoratori. Ma le cose non stano proprio così.

Infermieri e disoccupazione, sul tema abbiamo molto da dire anche noi

Una delle azioni più attese del governo in carica è quella relativa all’attuazione del reddito di cittadinanza.

Oggetto di propaganda elettorale e di dibattito di questi giorni, rappresenterebbe uno strumento, a detta dei proponenti, per combattere nell’immediato l’inoccupazione, o peggio la disoccupazione presente in molti settori, specie nei confronti di coloro che si ritrovano costretti a doversi reinventare un’occupazione.

Il dibattito in merito è serrato, le polemiche tallonano da vicino il Governo e gli addetti ai lavori, quelli che, nella stanza dei bottoni e dei soldini, sanno realmente quanto si può spendere o meno, dicono che le risorse per seguire l’esempio di altri paesi occidentali non ci sono.

Ad ogni modo la questione è abbastanza complessa e la mancanza di un lavoro è trasversale fra professioni e generazioni e per tale motivo non si può non darne lettura anche attraverso uno sguardo infermieristico.

In questo qualcuno potrebbe chiedere con forza che cosa abbiano da dire in tema di disoccupazione gli infermieri, che in fondo sono degli statali protetti e che non rischiano di finire in strada come tanti altri lavoratori.

Vero, in parte però. Negli ultimi anni gli appartenenti alla generazione maggiormente rappresentata, e più vecchia, all’interno della professione infermieristica – i baby boomers - con almeno 30–35 anni di servizio, nella quasi totalità dei casi non lavorano più nello stesso servizio dove iniziarono la loro carriera professionale.

In qualche caso è una buona cosa, perché conseguente ad un avanzamento, un cambiamento, un passaggio a turnazioni migliori.

In molti casi al contrario continuano a fare notti, salti riposo, turni pesanti, magari da soli e non più in coppia con un infermiere (quando va bene stanno assieme ad un Operatore socio sanitario).

E soprattutto non sono più nello stesso reparto, nello stesso ospedale, data la continua chiusura di servizi e presidi. Sì, vabbè, continuano a lavorare però, sottolineerebbe ancora una volta qualcuno, senza però considerare che le condizioni sono peggiorate e le risorse fisiche, psicologiche e cognitive … pure.

E senza considerare il fatto che sempre più frequentemente il collega Oss è una persona che è riuscita a “reinventarsi”. O più semplicemente ad avere i soldi, il tempo e la testa per pagarsi un corso professionalizzante, dopo un periodo di disoccupazione; un fatto che ha le potenzialità di far apparire la professione assistenziale come una seconda scelta, un’ultima spiaggia, un “non c’era di meglio”.

Forse qualcuno ancora ricorda le parole del Cavaliere quando nel 2002 proponeva, per gli operai licenziati, di riciclarli nei servizi sanitari in qualità di infermieri. Boutade censurata a suo tempo che però aveva tutto il merito di sottolineare una condizione costante all’interno del mondo infermieristico, assistenziale e sanitario in generale: la carenza cronica di personale.

Non passa governo in cui, ormai da decenni, non venga sollevata la questione della carenza infermieristica. Probabilmente nell’agenda di tutti i presidenti Ipasvi/Opi di questi ultimi anni un intervento in merito è stato almeno una volta messo in opera e questo rende il quadro del settore occupazionale sanitario (e dei servizi) nella sua vera natura, dove più che parlare di licenziamenti e disoccupazione, si parla di mancato reintegro di pensionamenti e carenza di personale (come nel terziario in generale).

Nei fatti, le questioni occupazionali pesano in maniera simile a quelle legate ad ogni settore economico e di conseguenza la questione del reddito di cittadinanza potrebbe assumere una sua valenza anche per l’infermieristica.

Un esempio in merito può riguardare più le fasce di età in entrata nel mondo del lavoro, i giovani, che non quelle in uscita, “gli anziani” (per loro sarebbe il caso di cominciare ad affrontare seriamente la questione dei pensionamenti).

Un reddito di cittadinanza in entrata per gli infermieri

Se è vero che è più difficile restare disoccupati per i professionisti sanitari, è vero anche che è altrettanto difficile “diventare occupato” per chi, giovane, è in cerca di un primo impiego.

Significative le cifre da campo di battaglia che puntualmente arrivano dai resoconti dei concorsi pubblici per qualche posto da infermiere, con candidati che arrivano in migliaia da ogni parte d’Italia, in molti casi dopo molte ore di viaggio.

Di conseguenza non resta che porsi il problema di avviare un reddito di cittadinanza “in entrata” per gli infermieri. Una sorta di pre-salario per i neolaureati disposti a fare un monte ore, per un periodo limitato, con un sostegno economico utile.

Basterebbe un presalario riconosciuto a chi si è speso per tre anni nella formazione universitaria, per costruire un professionista che non merita il limbo della disoccupazione, della prestazione gratuita spacciata per volontariato, in una guerra al ribasso fra poveri

Favorirebbe un’ulteriore preparazione “sul campo” dei giovani colleghi, darebbe “ossigeno professionale” ad ospedali e servizi in carenza continua e sarebbe una prima risposta alla disoccupazione infermieristica e sanitaria.

Del resto va sottolineato il fatto che in passato c’era un riconoscimento alla particolarità della professione infermieristica, alla disponibilità a fare un lavoro che non proprio tutti amano come prima scelta (anche andare in miniera non è propriamente un percorso ambito, o spaccarsi le reni nei campi di pomodori per 3 euro all’ora, o … molti altri esempi), e per tale motivo era attivato, a livello regionale, un presalario che accompagnava l’allievo infermiere professionale (tale era la dicitura al tempo delle scuole convitto), lungo i primi passi della suo impegno formativo.

Con la trasformazione dei Corsi Regionali in Corsi Universitari il presalario venne meno. E non potrebbe essere reintrodotto senza creare, durante il corso degli studi, problematiche di vario tipo, dato che si chiederebbe di pagare una retta universitaria che poi … verrebbe in parte “rimborsata” dal presalario; il rischio di pasticci burocratico-economici è altissimo.

Per evitare tutto ciò, basterebbe un presalario riconosciuto a chi si è speso per tre anni nella formazione universitaria, al fine di condurlo e aiutarlo nell’entrata nel mondo del lavoro, della professionalità.

Lungo un percorso su cui lui e la sua famiglia hanno investito, e su cui ha investito anche la società per costruire un professionista che, una volta discussa la tesi, non merita il limbo della disoccupazione, della prestazione gratuita spacciato per volontariato, in una guerra al ribasso fra poveri.

Un presalario per i giovani infermieri neolaureati, quindi, ed anche per i giovani tutti, perché se noi infermieri siamo speciali, lo siamo al pari di tutte le altre professionalità; di tutti coloro che si spendono per una vita e ad un lavoro degni di questo nome.

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