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Editoriale

Scemo di guerra

di Giordano Cotichelli

Nel 1985 uscì un film di Dino Risi dal titolo “Scemo di guerra”, interpretato dal famoso comico francese Coluche e da Beppe Grillo. La storia parlava di un ufficiale medico sofferente di disagio mentale, causato da condizioni pregresse e peggiorato poi con il dramma della guerra. In questo il titolo è significativo di un’affermazione che, ancora fino agli anni ’80, era molto presente nell’immaginario collettivo italiano dove appunto essere identificato come uno scemo di guerra poteva significare un momentaneo irridente appellativo per un qualche comportamento anomalo, oppure, come spesso accadeva, sottolineava le conseguenze permanenti di traumi riferibili appunto a qualche evento bellico.

I medici e gli infermieri soffrono di shell shock?

Il termine specifico, in campo clinico, è quello di "shell shock" e designa il trauma provocato dall’orrore della guerra. Una definizione che comincia a farsi strada sin dalla Grande Guerra, come viene ricordato, tra le tante fonti, in relazione all’assistenza infermieristica, da Anna La Torre, Valentina Chiccoli e Luisa Pancheri in un articolo del 2017 pubblicato sulla rivista JIN - Italian Journal of Nursing - dell’OPI di Milano-Monza-Brianza-Lodi.

Nel lavoro viene sottolineato il contributo infermieristico non solo in relazione all’assistenza di base fornita ai militari colpiti da quella che oggi viene chiamata PTSD (Post traumatic stress disorder), ma anche della terapia innovativa – per quegli anni – denominata "talking cure", che poi evolverà in quella che è la moderna psicoterapia.

I sintomi riferibili al PTSD son o in genere tachicardia, palpitazioni, inespressività, tremori incontrollabili, ipersensibilità sensoriale (specie ai suoni o alla luce) muscoli irrigiditi, paralisi, mutismo, disturbi del sonno, crisi improvvise di pianto. Fin qui nulla di particolarmente rilevante se non fosse che attualmente ci si trova in un tempo in cui la guerra è tornata prepotentemente e violentemente a far parte della quotidianità delle nostre vite. In molti casi accentuata attraverso il veleno diffuso dai media e dai social ad ogni livello.

Dallo Yemen all’Ucraina, dalla Siria al Sudan e a tanti altri posti, sia i militari coscritti, ma ancor più i civili, sono costretti a vivere a contatto con l’orrore quotidiano prodotto dalle armi e dai politici guerrafondai. E fra questi ci sono anche coloro che sono costretti a lavorare sotto le bombe, e viene da chiedersi, nello specifico, come si riesca a resistere a non “crollare”, a continuare così ad aiutare gli altri.

In realtà c’è poco da resistere. Si impazzisce piano piano, giorno dopo giorno, adattandosi così alla follia della guerra, sperando di liberarsene poi quando tutto sarà finito. Se sarà finito. A Kiev e a Leopoli, a Kharkiv o a Mariupol, quante strutture sanitarie sono state attaccate, distrutte o messe continuamente sotto stress? Come si fa a lavorare e a non impazzire quando ai tanti morti e ai tanti feriti si aggiunge la mancanza di spazi e di medicine, di materiali e di personale, di tempo, e di tempo di riposo.

I medici e gli infermieri soffrono di shell shock? O, peggio, quanto e per quanto la società ucraina (e yemenita, somala, sudanese, etc.) continueranno a soffrire di shell shock Le armi mandate in abbondanza agli ucraini, o quelle che sono puntualmente catturate o razziate, saranno poi abbandonate? O si ritorceranno contro gli stessi che oggi, in nome della pace, ne invocano la vendita senza limiti?

Il terrore della guerra in Ucraina è da temere, ne genererà uno infinito, alimentato da parte dei signori della guerra locali, nazionali e internazionali che in nome del profitto e del potere, e di qualsiasi ideologia mascherata che ne legittimano l’uso.

Circa una ventina di anni fa – era il 2004 – Ascanio Celestini mise in piedi uno dei suoi primi lavori teatrali dal titolo, appunto: “Scemo di Guerra, Roma 4 giugno 1944”, ispirato ad un libro precedentemente pubblicato e costituito da un insieme di importanti testimonianze tratte dalla narrazione di chi la guerra l’aveva vissuta in prima persona.

Narrazioni utili a creare consapevolezza e non adesione acritica da tifoseria a schieramenti vari. Alcuni studenti infermieri in Erasmus in Lettonia in queste settimane, hanno riferito che all’indomani dell’invasione dell’Ucraina il personale infermieristico e gli ammalati, presso l’ospedale dove lavoravano – in buona parte di origine russa – hanno esultato per la scelta bellica fatta dal neo-zarismo del terzo millennio.

Una testimonianza, e vale per quello che è, anche se credo che molto più distanti dalle frontiere dell’ex-impero sovietico, molti dei nostri sanitari allo stesso modo si lascino ammaliare dalle tifoserie tossiche che ogni guerra comporta con sé. È una brutta cosa.

Peggiore però è quella rappresentata dalla maggioranza dei sanitari che non si interessa, non prende parte, si lascia trascinare nelle analisi restando pressoché indifferente e non rendendosi conto che ad essere scemo di guerra, presto o tardi, tocca a tutti. O come vittima, o come carnefice.

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