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editoriale

Gli infermieri e l'elaborazione del lutto

di Domenica Servidio

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PESARO. Quanto è difficile per un infermiere vivere la morte? Dietro questa apparente contraddizione di termini, si nasconde un importante varietà di significati, emozioni, esperienze in una società in cui gli ideali di salute, benessere e estetica guidano sempre più le nostre scelte e l’agire quotidiano. Prendere contatto con la sofferenza dei pazienti è un atto al quale difficilmente si può essere davvero preparati e a maggior ragione alla realtà della morte e del lutto. Viviamo in una società che tenta di legittimare alcune di quelle situazioni "limite" connesse al morire, come la sofferenza, il dolore e la malattia. L’elaborazione culturale dell’idea della morte è strettamente collegata all’ambiente socioculturale in cui si è inseriti. Ogni società trasmette infatti una cultura della vita che inevitabilmente si riflette sul modo di rappresentare la morte (Aries, 1978).

Il comitato Nazionale di Bioetica afferma: “Il tema della morte possiede una rilevanza assolutamente primaria per l’autocomprensione dell’uomo. La morte non può essere considerata un mero evento biologico o medico: essa appartiene ad un ordine completamente diverso, rispetto a quello cui appartiene l’evento morboso. La morte sta paradossalmente a fondamento stesso della identità del soggetto, è portatrice di un significato nel quale va ravvisata la radice della dignità stessa dell’uomo. (…) Un adeguato sostegno dell’Ars Moriendi richiede che la rigorosa preparazione tecnico-scientifica del Personale Sanitario sia integrata da una corrispondente preparazione bioetica, che la arricchisca con una doverosa sensibilità antropologico-relazionale”.

E’ qui forte il richiamo alla necessità di approfondimento relazionale e, all’aumentata necessità di supporre la gestione delle dinamiche di Equipe con la condivisione tra le diverse professionalità dei modelli relazionali, nell’ottica di un’assistenza infermieristica che va consolidando nel tempo una visione olistica dell’uomo che accresce nell’operatore la risonanza emotiva e il coinvolgimento.

Spesso di fronte alla morte, si crea però un imbarazzo verbale ed emozionale, che si manifesta nell’incapacità diffusa di dare un nome alle emozioni e la necessità di rifugiarsi nel “controllo professionale” della situazione, che può portare all’indifferenza. Attualmente nei piani di assistenza infermieristica non sono previsti momenti specifici dedicati all’ascolto del paziente. In molti casi ciò è trasversale ad altre attività, e ciò non lo rende strutturato e soprattutto focalizzato al soddisfacimento di bisogni a volte anche di tipo interiore/spirituale.

E' importante essere consapevoli del fatto che la mancata elaborazione emozionale costituisce la base del lutto patologico. E' necessario infatti esprimere le emozioni proprie e consentire agli altri di esprimere le proprie, acquisendo la difficile arte di controllare la comunicazione di fronte agli utenti.

L’infermiere provvede alla constatazione del decesso anche in assenza del medico, rilevando i segni di morte negativi, ovvero la cessazione del respiro, dell’attività cardiaca (polso carotideo in quanto altri polsi più periferici possono non essere attendibili) e neuro-muscolare (riflesso pupillare: diminuzione ed aumento del diametro della pupilla mediante stimolazione luminosa; riflesso corneale: evocabile toccando l’occhio che determina la chiusura delle palpebre). Successivamente il medico provvede alla constatazione legale del soggetto accertando in cartella clinica la morte del paziente.

Il nostro Codice Deontologico specifica all’Art. 4.15 che “ L’Infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione clinica e fino al termine della vita, riconoscendo l’importanza del confronto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale” e inoltre nell’Art. 4.16 viene sottolineata la sensibilità infermieristica nel “sostenere i familiari dell’assistito in particolare nel momento della perdita e nella elaborazione del lutto”. Aver cura della morte però non è semplice, perché aver cura della morte è traducibile con l’aver cura della sofferenza del dolore di chi sta morendo e di coloro che sono accanto, indipendentemente dalla religione e dalla cultura.

Anche in molti racconti si parla della morte. Esiodo ad esempio, narra come Asclepio, il dio greco della medicina, abbia tentato di forzare la morte affermando di poter curare tutte le malattie e resuscitando un morto. Questo il motivo per cui è stato fulminato da Zeus. La morte rappresenta dunque un limite invalicabile anche per la divinità, restando un concetto alieno nel corso dei secoli fino ad influenzare ancora l’uomo contemporaneo, il quale continua a sentirla come esterna a sé, e come tale anomala.

Significativo a riguardo il commento di Calamandrei e D’Addio, esperti di nursing: ”Una cosa che può accadere all’infermiere che assiste una persona in fase terminale è di avere egli stesso un processo di lutto più o meno esteso: i rischi sono quelli di una grande sofferenza personale e di un sostegno poco efficace al morente e alle persone che gli stanno accanto. In casi del genere un professionista sufficientemente addestrato all’introspezione fa in modo che i suoi sentimenti non incidano sul rapporto con coloro nei cui confronti ha precise responsabilità di aiuto". Comunque egli deve tener conto dei propri limiti e ricorrere all’aiuto di colleghi se in qualche momento rischia di non sopportare una situazione che è tra le più difficili da gestire.

A conclusione di quanto affermato finora, appare significativo questo spunto di riflessione: ” Il nostro compito è simile a quello del suonatore d’arpa. Al suonatore d’arpa viene un callo sulla punta delle dita, in questo modo non si ferisce quando suona e tira le corde, però se è un buon suonatore, nonostante i calli conserva un’ottima sensibilità. I calli non gli impediscono di essere un buon suonatore, sono proprio essi che lo rendono tale. Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la capacità di continuare a funzionare correttamente anche avendo paura” (K.S. Sorensen).

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