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editoriale

Investire sulle professioni sanitarie con nuovi percorsi di sviluppo delle carriere e nuovi ambiti

di Felice Marra

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PISTOIA. Viviamo il tempo dei blocchi. I contratti collettivi nazionali di lavoro sono ormai fermi da diverso tempo. Le categorie professionali, costituite con il CCNL 7.4.1999 e basate sull’ordinamento professionale delle categorie A, B, BS, C, D, DS, sono ormai anacronistiche e hanno esaurito i loro effetti con la progressione della maggior parte del personale nelle categorie D e DS. Questo fenomeno è causa di un atteggiamento poco efficiente e per nulla meritocratico nell’aver favorito i passaggi di categoria di massa.

Anche se l’approccio non è stato corretto, occorre considerare, in tutta onestà, se la via giusta sia stata quella di abrogare l’istituto delle progressioni verticali,  rispolverando le procedure del concorso pubblico che prevedono un’ampia platea di partecipanti  con prove su tematiche generali non correlate alle specifiche esigenze funzionali e professionali. Questo per significare che l’istituto delle progressioni verticali all’interno dell’azienda rimane sicuramente una buona idea.

 

Partiamo dal presupposto che una azienda vincente che guarda al futuro deve poter costruire dei percorsi di carriera professionale interni per i propri dipendenti. Per tali motivi si rende opportuno che le selezioni interne siano ripristinate al più presto, anche se con nuove forme e modalità.              

 

Oggi si rende più che mai necessario innovare l’attuale ordinamento professionale. Una ipotesi potrebbe essere quella del superamento delle categorie professionali, prevedendo delle aree di più ampio respiro, nelle quali prevedere vari livelli funzionali. In questo ambito è necessario prevedere una riforma organica e integrata che delinei i percorsi delle carriere professionali compresi gli incarichi di posizione organizzativa,  gli incarichi per le funzioni di coordinamento e gli sbocchi a livello dirigenziale. Su quest’ultimo aspetto dobbiamo rilevare che i percorsi di carriera professionale del personale del comparto sono stati sempre visti in modo disgiunto dal livello dirigenziale, come se tale livello fosse una sorta di altra dimensione. Invece è necessario prefigurare dei percorsi di carriera di più ampio respiro fino al livello massimo della dirigenza, valorizzando dei punti di arrivo possibili anche per il personale interno di una azienda. Ciò nell’esigenza di rendere evidente e visibile che l’eventuale sbocco finale alla dirigenza è un grande traguardo, riservato a pochi, ma comunque esistente nei percorsi di carriera professionali.

 

Una ipotesi per il personale delle professioni sanitarie  potrebbe essere quella di prevedere  tre aree di carriera professionale:

 

a)   l’area gestionale/organizzativa dove possono essere inglobate le attuali posizioni organizzative e le funzioni di coordinamento;  

b)   l’area professionale che potranno essere articolate su diversi livelli di complessità cui correlare una specifica retribuzione stipendiale;

c)   l’area di base operativa di linea assistenziale e/o funzionale ordinaria. 

 

All’interno di ogni singola area gestionale/organizzativa; professionale e di base operativa, potranno essere previsti vari livelli che definiscano i vari percorsi di carriera, partendo da un livello ordinario di base, proseguendo con livelli intermedi e giungendo ai massimi livelli di complessità specialistica e gestionale. Tale impostazione può avere una importanza sostanziale se  viene accostata e integrata, con una visione armonica e d’insieme, con il processo delle job description.

 

Su tali basi, i prossimi contratti collettivi nazionali di lavoro nello stabilire il quadro giuridico ed economico delle aree  gestionali, professionali e operative (cui correlare i minimi di area a livello di stipendio tabellare) dovranno lasciare ampio spazio alla contrattazione collettiva integrativa aziendale per poter disciplinare i vari livelli ordinari e di complessità, in modo funzionale alla specifica organizzazione di lavoro e affiancando ai medesimi una parte significativa di retribuzione variabile, correlata alla specifica posizione, che viene erogata in relazione al grado dei risultati raggiunti.

 

In tal modo si otterrebbe un sistema che dia più ampio respiro alle carriere professionali e gestionali, valorizzando, nel contempo, la componente economica variabile sui risultati raggiunti.       

 

Un aspetto importante delle nuove aree professionali, sarà quello di ripensare alla specifiche declaratorie professionali (mansioni e compiti)  in modo più  appropriato alle esigenze dell’organizzazione aziendale. In tale ambito si assiste a un bisogno di trasferimento di competenze, ad esempio, dal medico all’infermiere specializzato, e dall’infermiere agli operatori socio-assistenziali.

 

Qui entra in gioco la solita questione relazionale con il personale medico.       

 

Nel passato il rapporto tra i medici era improntato su criteri gerarchici, dove in cima alla piramide era posto il primario ospedaliero, il cui nome indicava chiaramente la sua supremazia clinico-gerarchica. Anche se ancora oggi si tende a continuare a usare la dicitura “primario”, è necessaria una svolta sostanziale che ridisegni il quadro e le relazioni tra le professioni mediche, le professioni sanitarie e gli operatori socio-assistenziali.

 

È stato giustamente rilevato che nelle stesse fonti normative e deontologiche si parla quasi sempre al singolare, quasi che il professionista agisca in solitudine, con la preoccupazione di riaffermare la propria natura identitaria, piuttosto che sviluppare l’integrazione multi-professionale. Ad esempio sul versante del codice di deontologia medica sono presi in considerazione sostanzialmente i rapporti con gli altri medici e risultano carenti i rapporti con le altre professioni sanitarie con cui il medico effettivamente lavora e si rapporta costantemente.

 

Altra questione importante e in divenire sarà il ruolo che dovrà assumere l’operatore socio-sanitario, in ragione della continua evoluzione del processo assistenziale che vedrà  una maggiore complessità di risposta per effetto del trend di invecchiamento della popolazione. In tale contesto va rilevato che l’operatore socio-sanitario ha nella flessibilità il suo punto qualificante, l’essere socio-sanitario, l’essere in linea con l’evoluzione dei bisogni sanitari della popolazione e con le esigenze del servizio sanitario nazionale.  

 

Riguardo le professioni sanitarie, già la Legge n. 43/2006, accanto alle figure dei professionisti, professionisti coordinatori e professionisti dirigenti, prevedeva anche la figura (non ancora decollata) dei professionisti specialisti. I professionisti specialisti sono figure dove è possibile trasferire alcune delle competenze mediche, in relazione alle evoluzione delle necessità di risposta dei servizi assistenziali, soprattutto nei contesti di emergenza.

 

Un interessante progetto che può fungere da esempio è il modello “See and Treat”  basato sulla capacità di risposta alle urgenze minori, e già ampiamente diffuso nel servizio sanitario Inglese.

 

In particolare dal “triage” possono scaturire due accessi distinti: per i casi più gravi e per le urgenze minori. In quest’ultimo caso può intervenire il modello “See and Treat”, attraverso personale infermieristico esperto e che ha ricevuto una formazione specifica per le patologie individuate attraverso una casistica selezionata per appropriatezza.

 

Ho visitato, un giorno, un Ospedale Londinese, e ho avuto modo di prendere conoscenza diretta del modello “See and Treat”. Entrando nella grande sala di attesa, mi sono impressionato sul numero di persone che attendevano. Eppure il flusso era costante e nel giro di un ora o poco più, le persone venivano visitate. Ho potuto notare a livello logistico-strutturale che dietro la grande sala di attesa vi era un primo corridoio semicircolare dove erano posizionati numerosi studi con all’interno una sola unità infermieristica. Alle spalle di questo primo corridoio, ne esisteva un altro più ridotto dove invece erano posizionati gli studi dei medici per i casi più gravi.

 

È evidente che le professioni sanitarie infermieristiche, con questo modello, passano da un apporto collaborativo ad una fase operativa autonoma, duplicando in tal modo le potenzialità dei punti di prestazione, così da incrementare la capacità di risposta e migliorare il flusso dei cittadini che si recano al Pronto Soccorso. Ricordiamoci, a tale proposito, che sono le patologie meno gravi, i casi più frequenti di accesso che provocano affollamento nei Pronto Soccorso.

 

Una delle questioni salienti per promuovere tale modello, sarà quello di identificare le patologie che possono essere trattate in maniera autonoma dall’infermiere, valorizzando l’autonomia operativa di questa figura professionale in un contesto legislativo che va rafforzato, al fine di dissipare ogni dubbio.

 

Proprio sulle questioni incentrate sulle relazioni tra professioni mediche e professioni infermieristiche, si è acceso un dibattito che dimostra che esistono, ancora oggi notevoli tensioni.

 

Da una parte, c’è chi ancora sostiene una sorta di “superiorità funzionale” del medico nei confronti dell’infermiere, dovuta “ in ragione delle sue maggiori conoscenze e abilità”. Su questo tema è stato evidenziato che le professioni mediche e le professioni infermieristiche, sono invece due ambiti distinti e specifici, ognuno con una propria dignità professionale e scientifica, dove il curare e il prendersi cura devono essere prerogative di professionisti differenti che, pur  integrandosi tra loro, mantengono sempre inalterate le loro sfere di autonomia professionale.  

             

Altri hanno evidenziato il problema della legittimità dell’agire delle professioni sanitarie, ravvisando che contano in modo determinante le normative che regolamentano l’esercizio delle professioni sanitarie, e non tanto, in tema di responsabilità l’invocare la “norma penale in bianco” dell’articolo 348 del codice penale che punisce l’esercizio abusivo della professione, oppure insistere sulle tradizioni professionali. Si ravvisa, a tale proposito, che è il legislatore, anche regionale (dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che classifica le materie delle professioni e di tutela della salute come legislazione concorrente) a dare corpo all’articolo 348 del codice penale.

 

Infine, pienamente condivisibile, è l’osservazione che la questione “relazione professionale infermiere-medico” non si risolve in punta giuridica, ma con il confronto aperto e trasparente, il riconoscimento reciproco e la costruzione integrata e flessibile di nuovi perimetri professionali.

Editorialista

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