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infermieri

La Linea Verticale e la voglia di aggrapparsi stretti alla vita

di Sara Di Santo

Gli infermieri sono il motore della sanità italiana. Lavorano giorno e notte vedendo cose che noi umani… Sono indispensabili. Sono sottopagati. Lontanissimi dalle fiction didascaliche, con “La linea Verticale” siamo catapultati nella mente di Luigi, paziente oncologico, che si trova a fare i conti con la paura e con un mondo - quello ospedaliero - che sembra lasciare più domande che risposte. Perché, in fondo, è l’allegoria di un Paese intero, in cui quelli che lavorano duro veramente non si sa “come, quando e da chi sono gratificati”.

Quando la malattia è un'occasione di riscatto: La Linea Verticale

La Linea Verticale” di Mattia Torre – 8 puntate da mezz’ora l’una, in onda su Rai3 – è una storia autobiografica e racconta l’avventura di Luigi – interpretato da un immenso Valerio Mastandrea - che da un giorno all’altro scopre di avere un tumore al rene.

Una vita messa fra parentesi, una vita messa in pericolo da una minaccia troppo difficile da comprendere, non avendo un vero ed unico perché.

Così veniamo catapultati in un flusso di coscienza di joyciana memoria e viviamo insieme a Luigi l’esperienza del ricovero. Ed è proprio nel vissuto di questa esperienza che sta il nocciolo di tutto.

Dal rumore assordante dei pensieri di Luigi, quelli di chi non riesce a prendere sonno, si capisce che ciò che conta è come i pazienti vivono il ricovero, cosa provano, cosa imparano.

Sì, l’ospedale è sempre presente, da lì non si esce mai se non per i flashback. E gli infermieri che emergono dal dramedy sono quelli di tutti i giorni, quelli che lavorano giorno e notte, quelli che non ricordano il nome di un paziente che si è operato due anni prima perché ne vediamo passare 300 l’anno, eppure non negano mai un sorriso, una concessione, una battuta.

Contrariamente alla malasanità, che pure esiste – dice Torre - La linea verticale significa lo stare in piedi e aggrapparsi alla vita con tutte le forze, la malattia è vista come crisi ma anche come occasione di crescita e di riscatto

Tra empatie mancate, nonsense e momenti di commozione pura, si respira forte il bisogno di restaurazione del legame umano fra paziente e personale sanitario. Ma non solo. “La Linea Verticale” è di più.

A ben guardarli, i pensieri di Luigi, più che di malattia, parlano dell’Italia. Lo fanno attraverso l’ossessione per il cibo, la tendenza a scaricare le frustrazioni su chi occupa il gradino sotto della scala gerarchica, ironizzando sulla visione degli immigrati e sul ruolo consolatorio della religione.

Un Paese in cui troppo poco spesso ci si ferma a contare quante sono le persone che lavorano duro veramente e ancora meno spesso ci si chiede che riconsocimento hanno? Come, quando e da chi sono gratificate?. Un Paese che tollera (?) raduni di band neonazi nel Giorno della Memoria.

Dalla critica, a tratti illusoria e leggera, non viene risparmiato nessuno: il medico che si allena con lo scatto felino per uscire dalla stanza, l’infermiere che rifiuta un gesto di cortesia, il prete che dimentica grazia e carità quando si trova in prima persona a dover affrontare la sfida più difficile.

Resta però la malattia, uno strappo nella vita. Un’occasione. Quella di sentire la voglia di aggrapparsi alla vita, quella tanto forte, di cui ti accorgi solo quando stai sulla linea orizzontale di un letto d’ospedale.

Gli infermieri sono il motore della sanità italiana. Lavorano giorno e notte vedendo cose che noi umani… Sono indispensabili. Sono sottopagati

La Linea Verticale” è un esempio lampante – e perfettamente riuscito – di quanto sia importante, all’occorrenza, la capacità di evadere dai propri abituali schemi di riferimento e avvicinarsi a quanto viene espresso in altre forme, da altri punti di vista.

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