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Quel razzismo e quella malasanità che hanno ucciso Ibrahim

di Giordano Cotichelli

Ibrahim era un ragazzo di 24 anni proveniente dalla Costa d’Avorio. È morto qualche giorno fa a Napoli a causa di una peritonite sopraggiunta con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, dopo che era stato rifiutato alle cure da parte di strutture e figure sanitarie varie. Le cronache dei media di questi giorni sono piene di informazioni per capire le dinamiche dell’accaduto e, sulla vicenda, il sindaco di Napoli De Magistris ha chiesto di accertare la presenza di eventuali responsabilità. Una manifestazione partecipata di cittadini, per le strade della città partenopea, ha sottolineato come il diritto alla salute, in questo paese, non è lo stesso per tutti.

Malasanità o razzismo? La morte di Ibrahim a Napoli

corteo napoli anti razzismo

Centinaia in corteo a Napoli per Ibrahim 

La storia di Ibrahim introduce una questione di rilievo per chi fa una professione sanitaria e d’aiuto in generale: il razzismo quotidiano che circonda azioni e pensieri, e come un fango invade coscienze e saperi. Così non dovrebbe essere vista la presenza di codici deontologici, dettati costituzionali e riferimenti teorici dell’infermieristica, a partire da Madeleine Leininger e dal suo nursing transculturale.

In realtà il mondo sanitario si predispone a devianze più facilmente di quanto non si immagini. La categorizzazione delle persone in sani e malati, bronchitici e cardiopatici, acuti e cronici, importa una visione abbastanza rigida, che cede, troppo spesso, alle semplificazioni e agli stereotipi. Punti di partenza per ogni forma di razzismo e intolleranza. La stessa professione infermieristica è puntualmente letta attraverso la lente di stereotipi, che vuole le professioniste essere di facili costumi, oppure acide zitelle, oppure algide esecutrici. Gli infermieri al tempo stesso subiscono in qualche caso lo stereotipo di una supposta omosessualità (come se ciò fosse poi una colpa).

In questo quadro emerge una visione della salute quale esclusivo prodotto delle buone e sane abitudini personali, come se i determinanti della salute e della malattia, elaborati dall’Oms, fossero solo la proiezione di piccole questioni sociali, ambientali ed economiche, mentre i cattivi comportamenti in realtà sono i veri responsabili di una malattia che assume troppo spesso il connotato culturale di una punizione divina per i propri peccati: fumo, cattiva alimentazione, sedentarietà ecc...

In tutto ciò si fa strada una percezione rigida dell’altro da sé, che non cerca mediazioni, che difficilmente lo assume come riferimento e in particolare lascia volentieri sulla carta tutte le belle intenzioni di essere professionisti dell’assistenza attraverso le capacità di coping, il counseling, l’advocacy, il dialogo, e così via. Durante conferenze, lezioni e seminari, più di una volta mi sono ritrovato a sottolineare agli studenti d’infermieristica, in vari corsi e sedi di questo paese, cosa significhi il termine etnia. Sempre, c’è stato qualcuno che brillantemente lo ha declinato in termini di suddivisione in razze a partire da quella caucasica, negroide, ispanica, ecc… Ricordo come nell’ultima versione del codice deontologico, quella del 2008, poi modificato, vi era scritto, a tema di universalità del pensiero infermieristico, che il professionista non fa distinzioni di religione, genere, cultura e … razza. Una testimonianza ulteriore di come false conoscenze possano costruire il nostro orizzonte scientifico di riferimento.

È di pochi anni fa la dichiarazione del garante della privacy che ricordava come il rilievo di dati inerenti alla religione del paziente fosse potenzialmente un atto a rischio di discriminazione. Eppure con le scuse più ingenue si continua a riportare la religione del paziente sulle varie cartelle infermieristiche/mediche, adducendo facili e immediate spiegazioni: la dieta, il rispetto, ecc...

Nella realtà si alimenta, specie fra gli operatori, una visione dicotomica, che pone in rilievo Noi e … tutti gli altri diversi da Noi. Florence Nightingale In molti apparecchi elettromedicali, da quelli per l’elettrocardiogramma agli ecografi, ai programmi per gli holter pressori, molto spesso si trova, fra i dati anamnestici il termine razza, e in qualche caso, semplicemente specificata con B e N.

Una voce la cui compilazione, per assurdo, diventa un moto di solerzia di servizio, che legittima ulteriormente una visione razzialista della società.

Ibrahim è morto per malasanità e razzismo. È il segno di un paese che sta arretrando, che è il secondo, dopo la Turchia, ad avere il più alto numero di analfabeti funzionali. Un paese che lo scorso anno ha perso più di un milione di lettori di libri e che vede erodere progressivamente le sue tutele e sicurezze in tema di salute e lavoro. I posti letto rimasti, negli ospedali rimasti, dopo tagli lineari feroci, non bastano per tutti. I Pronto soccorso sono affollati e le rette della cronicità nelle varie strutture residenziali non possono essere sostenute da tutti, in un quadro socio-economico e sanitario in cui le prospettive future sono abbastanza funeste.

In tutto ciò, essere infermiere diventa un atto di maturità e impegno professionale e sociale verso l’unica razza di riferimento cui rivolgersi: quella umana, con il mandato di non permettere più che nessuno rimanga senza cure

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