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infermieri

Quanta pazienza ci vuole a fare il paziente

di Mimma Sternativo

È una scena che vedo mille volte al giorno da almeno dieci anni: i pazienti si spogliano e si lasciano visitare, guardare, toccare da medici ed infermieri estranei fino ad un attimo prima. Ma questa volta è toccato a me, che voglio sempre fare tutto da sola. “Beccata” dal medico che mi sta visitando ad incaponirmi con ostinazione su questi pensieri d’indipendenza, arrossisco come una bambina sorpresa con le mani nella marmellata. E penso a quei pazienti che non torneranno a far da soli, al panico che si prova. Eccolo lì il senso di quegli anni passati in università, eccolo il senso dell'essere professionista, dell'essere infermiere.

Vestire i panni del paziente rinnova il senso dell'essere infermiere

Spogliati, mi dice. Ma come? Non doveva prescrivermi solo un farmaco? Quanta pazienza ci vuole a fare il paziente. Mi spoglio, so benissimo che è un medico.

Quante volte ho detto ai miei pazienti: Signora tranquilla, non abbia imbarazzo. Qui ne passano così tanti che non ci preoccupiamo mica di guardare di che colore è l'intimo, non guardiamo mica queste cose qui, noi. Ma i pensieri continuano ad andare.

Ma cavoli, proprio oggi? Averi dovuto mettere quell'altro reggiseno, un po’ di crema. Tento di cacciar via i pensieri da "paziente comune". Sono una professionista io, so come vanno le cose in ospedale. Riassesto la mente.

Il medico mi sta visitando; tocca qui e là, mi ausculta, mi tira su una gamba, poi l'altra. Gira di qua, gira di là. Mi parla, ma sono più attenta ai suoi gesti, a come si muove, a come si approccia. A come mi parla, lo studio.

Tra una domanda e l'altra mi sorride e mi dice: Qui qualcuno vuol primeggiare nella vita. Sorrido. Cosa ne sa lui? Ma mi riporta in un attimo nel mio mondo, nella mia dimensione di tutti i giorni.

Io ci sono, esisto ed effettivamente sono una tosta, sì. I miei muscoli parlano a quanto pare. Sono distesa su un lettino, ho addosso solo l'intimo.

Nella mia testa c'è un'intera orchestra di pensieri. Sono preoccupata, poco o molto, devo ancora deciderlo. Provo imbarazzo, mica lo conosco questo qui... però è un medico, mi ripeto.

È una scena che vedo mille volte al giorno da almeno dieci anni: i pazienti si spogliano e si lasciano visitare, guardare, toccare da medici, infermieri, estranei fino ad un attimo prima.

Eppure non ci pensiamo mai a quanto sia importante per ogni umano sentirsi autonomo. Quel tocco che è cura.

La porta si apre.

Entra una donna. Non mi guarda, non accenna ad un saluto. Si affretta a parlare con il medico, non indossa una divisa.

La porta resta spalancata su un corridoio con un bel via vai di colleghi. E mi tornano in mente tutte le check list del primo anno di università, iniziavano tutte così: "garantire la privacy". Ecco.

Un minuto di orologio o forse meno... un'eternità.

E vorrei dire: Scusi lei, ma non mi ha visto che son praticamente nuda? Non può chiudere quella benedetta porta? Non può almeno considerarmi come essere vivente e salutarmi? Ehilà, mi vedi?!

Check list: "Saluto e mi presento al paziente". Penso, ma i miei muscoli devono avermi tradita ancora una volta, perché il medico incalza subito: Scusi, è una collega.

Beccata. Accenno ad un sorriso, quasi a scusarmi dei miei pensieri. E ripenso alle volte in cui sono io che recito la parte di quella donna. Chiedo scusa ai miei pazienti. Giuro non riaccadrà.

Se ne va, non mi saluta. La porta si chiude, finalmente. La visita riprende, ha ripreso a parlarmi. Ha un modo così gentile di porsi.

Dobbiamo fare delle infiltrazioni, mi dice. Io ho paura degli aghi (che devono infilzare me, un conto è pungere gli altri), posso correre via?

Che gran figuraccia farei. Acconsento, stavolta non se ne accorge... forse. Mi porge un aiuto per rialzarmi, lo rifiuto con gentilezza e quasi non me ne rendo conto. Sa che avrei dolore a rialzarmi da lì e a rimettere i vestiti da sola e ci riprova, tenta di aiutarmi. Ma lo anticipo e mi affretto a farlo da sola, quasi a dire: non ho bisogno di te.

Si ferma, mi guarda. Mi sorride e mi dice:

È difficile per noi fare i pazienti, eh? Per una volta puoi farlo anche tu e accettare di aver bisogno dell'aiuto di un'altra persona. È solo per questa volta, poi tornerai a far da sola

Beccata. Arrossisco come una bambina sorpresa in flagrante a rubare del cioccolato. E penso a quei pazienti che non torneranno a far da soli, al panico che si prova.

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