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Testimonianze

Essere Oss e mamma è una bella sfida, la storia di Giusy

di Paola Botte

Vedo il mio lavoro da un altro punto di vista. Quello dei genitori, ma non dimentico il mio ruolo. Giusy parla così, col cuore in mano e racconta la sua esperienza emotiva nei reparti dell'Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, dove lavora dal 2002.

Giusy, mamma e Oss

L'Oss è un po' come una mamma

Da quando sono diventata mamma, tutto è cambiato: la gestione del tempo, la visione del mondo, le relazioni con amici e conoscenti.

È cambiata anche la mia sensibilità nei confronti dei pazienti che assisto. Essere Oss e mamma è una bella sfida, soprattutto quando i miei pazienti sono bambini.

Giusy parla così, col cuore in mano e racconta la sua esperienza emotiva nei reparti dell'Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, dove lavora dal 2002.

Per lavorare come Oss servono indubbiamente preparazione, sangue freddo, uno stomaco di ferro ed infine - ma non per ultima - molta sensibilità. Tutte caratteristiche che, a pensarci bene, servono anche ad una madre, che, al di là dell'amore incondizionato che la guida verso una buona educazione dei propri figli, deve possedere il giusto equilibrio tra razionalità e istinto.

Quindi possiamo dire che l'Oss è un po' come una mamma. Con le sue conoscenze deve essere da supporto al paziente o in alcuni casi sostituirsi ad esso, per affrontare al meglio le difficoltà della degenza; deve educarlo e agevolarlo a sostenere eventuali cambiamenti nelle sue abitudini quotidiane legati alla patologia; deve creare empatia con il paziente senza lasciarsi coinvolgere troppo per il bene di entrambi.

Il rischio per l'operatore è il burnout, anche definita sindrome di esaurimento emotivo.

Nel nostro lavoro, fondato sull'assistenza alla persona, non è sempre facile mantenere la giusta distanza - racconta Giusy -. Siamo in prima linea, a contatto fisico con il paziente. Nel periodo della degenza che nel mio caso, essendo un reparto di chirurgia neurologica, arriva anche a diverse settimane, impariamo a conoscere le sue abitudini, i suoi gusti e le sue debolezze. La sua famiglia.

Spesso ci capita di assistere pazienti con tumori all'ultimo stadio e addirittura bambini provenienti dal reparto di neuroncologia. In questi casi è importantissimo trasmettere forza e positività sia ai degenti che alle loro famiglie

È facile immaginare come chiunque, professionisti, operatori, gente comune, si sentirebbe messo a dura prova, ma per un operatore che come Giusy è anche madre tutto è diverso.

Essere madre vuol dire vedere le cose da un altro punto di vista. Quello dei genitori. Ci si immedesima in loro che soffrono in silenzio tra le corsie del reparto. Si diventa più apprensivi nei confronti dei propri figli e più spaventati di metterne al mondo altri.

In generale, si è più sensibili nei confronti anche di pazienti adulti e anziani. Durante le cure igieniche, uno dei momenti più intimi della giornata, cerco di ascoltare con discrezione se hanno qualcosa da raccontarmi, di strappare un sorriso quando possibile e di regalare una buona parola.

Ma una volta uscita dalla stanza non posso fare a meno di sentire addosso il peso del loro dolore. Dico sempre che da quando sono ritornata a lavoro, dopo le due gravidanze, ho la lacrima facile. Ed è vero. Ma non dimentico qual è il mio ruolo.

E di compiti, un OSS che lavora prevalentemente nel post operatorio, ne ha tanti.

Accogliere il paziente che arriva dalla sala operatoria, collaborare con i colleghi nel trasferimento dal lettino operatorio al letto del reparto, valutare il suo stato di coscienza, rilevare i parametri vitali, verificare la pervietà dei drenaggi e dei cateteri e poi riferire tutto all'infermiere, elenca Giusy.

Grazie ai numerosi anni di esperienza, al tempo trascorso dal primo corso OTA frequentato a vent'anni e poi riconvertito in OSS e alla maturità acquisita, Giusy oggi è in grado di gestire le sue emozioni anche quando sembra impossibile.

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