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testimonianze

Quel razzismo in corsia che umilia noi oss straniere

di Paola Botte

Riconoscere il valore del lavoro altrui non è sempre facile, soprattutto se si corre dietro ai soliti stereotipi legati alle origini di una persona. Questo è ciò che è accaduto per esempio a Karin Junet, peruviana di 27 anni, Oss residente in Emilia Romagna da cinque anni.

La mia vita da oss a contatto con il razzismo

razzismo

Karin è stata più volte vittima di razzismo

Sui peruviani - afferma Karin - e in generale sui sudamericani corrono moltissime voci. Si dice che siano tutti ubriaconi, violenti, che le donne siano prostitute o ladre. In questi anni in Italia ne ho sentite davvero tante, ma la cosa che mi ha ferita più di tutte è sentirmi dare della fannullona. Io lavoro come oss da poco più di cinque anni, ho cambiato molte strutture e tramite una cooperativa ho lavorato anche in due ospedali pubblici. Coordinatrici e colleghi sono quasi sempre rimasti molto soddisfatti del mio lavoro, ma non posso negare di essere stata purtroppo anche vittima di razzismo.

La denuncia di Karin parte da lontano. Si parla del corso di oss, quando si è presentata per la prima volta presso una scuola per chiedere informazioni sull'iscrizione.

La prima cosa che mi fu detta, senza che l'avessi neanche chiesto, fu il prezzo. La segretaria mi guardò e mi disse: "Cara, però il corso costa un bel po'. Sei sicura di potertelo permettere?". Al momento, rimasi senza parole, diventando rossa in viso, perché anche altre persone che erano lì per lo stesso motivo e avevano sentito le sue parole. Subito dopo, risposi di non avere problemi economici, anche se in realtà stavo facendo molti sacrifici per mettere quei soldi da parte. Nonostante la mia risposta secca, la signorina continuò a non volermi dare altre informazioni se non il prezzo. Ricordo ancora che disse: "Guardi bene, c'è scritto anche sul nostro volantino. Il costo totale che comprende iscrizione, tirocinio e libri è di 1.750 euro. A suo carico rimane ovviamente il costo delle due divise". Una telefonata interruppe la conversazione e io umiliata, ne approfittai per uscire dalla sede.

Quando Karin lasciò Lima, la capitale del Perù, per trasferirsi in Italia, aveva portato con sé tanto entusiasmo e la voglia di cambiare vita. Lì, la sua famiglia che era numerosa e povera, aveva a malapena potuto garantirle gli anni di scuola obbligatoria. L'università era rimasta un sogno nel cassetto, però grazie ai suoi zii che vivevano già a Roma, Karin riuscì perlomeno a fare quel viaggio che in parte le ha cambiato la vita.

All'inizio - aggiunge l'oss - credevo che sarebbe stato tutto bello e semplice. Vedevo quel viaggio come la mia salvezza, oltre che quella dei miei fratelli e sorelle, ai quali avrei potuto inviare del denaro. Ma non fu tutto così facile. È vero, dopo aver restituito i soldi ai miei zii, quelli per il viaggio e quelli per gli studi da oss, la maggior parte di ciò che ho guadagnato l'ho inviato in Perù e sono riuscita ad aiutare la mia famiglia. Però sul piano personale, è stato tutt'altro che semplice. Ricordo una volta a lavoro, un paziente che non era rimasto contento del trattamento ricevuto in reparto, mi disse che la colpa era di noi oss e infermieri stranieri, che avevamo rovinato il mondo dell'assistenza italiana con la nostra sporcizia. Ci rimasi molto male, anche perché io ho sempre cercato di dare il massimo e di rispettare ogni esigenza del paziente. Oppure, quella volta che un'infermiera, con molti anni di servizio alle spalle, mi disse che i peruviani, vista la nostra bassa istruzione, non potevamo aspirare a nulla di più che a lavare sederi. Avrei voluto risponderle che in Perù per diventare infermieri si studia ben cinque anni e gli studi sono molto impegnativi, oltre al fatto che in Italia la maggior parte delle donne peruviane immigrate sono proprio infermiere. Però feci finta di niente e continuai con il mio lavoro.

Per non parlare di tutte le volte che Karin ha dovuto scontrarsi con i pregiudizi dei parenti dei pazienti ricoverati. Tante volte mi è capitato di entrare in una camera e sentire i commenti sottovoce dei parenti che mettevano in dubbio il mio operato o addirittura la mia onestà. "Mamma - disse una volta una signora rivolgendosi alla madre ricoverata - forse è meglio che la fede di nozze la dai a me. Te la riporto quando esci dall'ospedale. ok?" Questa è soltanto una delle mille cose successe.

Sicuramente non ci si può abituare a chi giudica solo per sentito dire e in base al colore della pelle, però si può cercare di ignorarli. Dopo cinque anni, Karin è quello che sta cercando di fare. D'altra parte, lei il suo obiettivo l'ha raggiunto. Con sacrificio e determinazione è riuscita a cambiare vita e ad andare avanti come professionista e donna. Oggi ha un contratto a tempo indeterminato, è sposata con un giovane peruviano che lavora come autotrasportatore ed è mamma di due bimbi.

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