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COVID-19

Focus su mortalità pazienti ricoverati in terapia intensiva

di Redazione

Nel contesto dell’emergenza COVID-19 il ricorso alle cure in ambiente intensivo tra i pazienti ospedalizzati ha rappresentato una evenienza non rara, come testimoniato dai primi report asiatici e confermato dalle stime europee e nordamericane, che riportano percentuali tra il 14.2 e il 26%. Tra i dati che più hanno destato interesse e palesato quanto i malati COVID-19 si differenziassero dai malati colpiti dalle polmoniti virali non Covid-19 è sicuramente da annoverare la mortalità nelle terapie intensive. Nonostante più di 190.000 persone siano già decedute per COVID-19 in tutto il mondo, i dati disponibili sulla mortalità dei pazienti ricoverati in terapia intensiva sottoposti ad intubazione e ventilati artificialmente sono pochi e molto discordanti tra di loro. Se lette in maniere frettolosa e superficiale tali differenze di mortalità in gruppi apparentemente simili di malati, potrebbero far pensare a qualità di cure e risorse significativamente diverse tra i diversi paesi o diversi ospedali nello stesso paese. Tuttavia, come a volte accade, le ragioni alla base sono da ricercare nella metodologia utilizzata.

Emergenza Covid-19 e mortalità in terapia intensiva, un po' di chiarezza

L’emergenza Coronavirus ha scosso la popolazione di tutto il mondo.

I sistemi sanitari dei paesi più colpiti sono stati messi a dura prova; soprattutto per la crescita rapida ed esponenziale del numero di nuovi malati riversatasi nelle strutture che hanno necessitato di cure ospedaliere.

Questa autentica “ondata” ha riguardato non solo la presa in carico dei pazienti ma, successivamente, è stato necessario ottimizzare le risorse disponibili per fornire le cure adeguate in funzione sia della gravità della malattia acuta COVID-19 che le condizioni preesistenti con le quali il paziente conviveva prima di ammalarsi (come l’età e le malattie pregresse quali il diabete, malattie cardiovascolari, etc.).

È ormai appurato, infatti, che quella che si pensava potesse essere una patologia polmonare isolata diventa, nei casi più gravi, una vera e propria sindrome sistemica determinando una insufficienza multiorgano.

Il ricorso alle cure in ambiente intensivo tra i pazienti ospedalizzati ha rappresentato una evenienza non rara, come testimoniato dai primi report asiatici e confermato dalle stime europee e nordamericane, che riportano percentuali tra il 14.2 e il 26%. Tra i dati che più hanno destato interesse e palesato quanto i malati COVID-19 si differenziassero dai malati colpiti dalle polmoniti virali non COVID-19 è sicuramente da annoverare la mortalità nelle terapie intensive.

Nonostante più di 190.000 persone siano già decedute per COVID-19 in tutto il mondo, i dati disponibili sulla mortalità dei pazienti ricoverati in terapia intensiva sottoposti ad intubazione e ventilati artificialmente sono pochi e molto discordanti tra di loro.

Se lette in maniere frettolosa e superficiale tali differenze di mortalità in gruppi apparentemente simili di malati, potrebbero far pensare a qualità di cure e risorse significativamente diverse tra i diversi paesi o diversi ospedali nello stesso paese. Tuttavia, come a volte accade, le ragioni alla base sono da ricercare nella metodologia utilizzata.

I primi lavori condotti in Cina riportano una mortalità elevatissima nei pazienti sottoposti a ventilazione invasiva. Uno studio monocentrico osservazionale retrospettivo ha raccolto dati da 52 pazienti ricoverati in ICU a Wuhan tra il 24 Dicembre 2019 e il 26 Gennaio 2020, riportando una mortalità dell’81% (n=19) con 3 pazienti ancora ricoverati in terapia intensiva al termine dei 28 giorni di follow-up.

Un ulteriore studio condotto su pazienti ricoverati in due distinti ospedali di Wuhan ha raccolto informazioni su pazienti ivi ricoverati tra il 29 dicembre 2019 e il 31 gennaio 2020. Tra i pazienti sottoposti a ventilazione meccanica invasiva, la mortalità è risultata del del 97% (n=31), con un follow-up totale per i pazienti ricoverati in terapia intensiva non deceduti di 8 giorni [intervallo interquartile 4 –12], sovrapponibile con quello dei non sopravvissuti.

Dati da oltreoceano ci giungono da uno studio che ha preso in considerazione lo stato di New York, in particolare la rete del Northwell Health a cui afferiscono circa 11 milioni di pazienti. Lo studio ha preso in considerazione i ricoveri ospedalieri di pazienti COVID-19 dall’1 marzo 2020 al 4 aprile 2020, con questa data presa come termine del follow-up.

Su un totale di 2,634 tra dimessi e deceduti, il 12% (n=320) hanno ricevuto ventilazione meccanica invasiva. Di questi l’88.1% (n=282) sono deceduti.

Tuttavia, ciò che maggiormente suscita interesse in questo report è rappresentato dalla mediana della durata della degenza dei pazienti il cui valore più elevato è di 5.5 giorni [intervallo interquartile 2.9-8.4] nei pazienti deceduti con età compresa tra 18 e 65 anni (n=134)].

Pertanto, seppur con una mortalità assimilabile ai dati cinesi, la durata di degenza risulta simile al report inglese e sorprendentemente più bassa di quella riportata dagli stessi studi cinesi e dallo studio lombardo.

*Articolo a cura del Team Scientific Happy Hour

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