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Quel che il Covid-19 è riuscito a far dire alla gente

di Monica Vaccaretti

Davanti alla nostra postazione, nella divisa Covid diventata tristemente nota come immagine della pandemia che ha sconvolto la nostra professione oltre che il mondo, ce ne stiamo a raccontarci aneddoti e casi umani. Per quasi un anno abbiamo tenuto in mano non soltanto il virus, appiccicato al tampone nelle secrezioni di nasi raffreddati e gole profonde, ma anche le persone. In quei pochi minuti di prestazione infermieristica abbiamo trattato con loro e con le loro vite. Abbiamo trovato il tempo, tra una etichettatura della provetta molecolare e il mescolare l'antigene nel suo reagente, di ascoltare storie e vicissitudini e di raccogliere paure e lacrime.

Tornare a ridere sdrammatizzando quel che è stato, tra un tampone e l'altro

"Vada piano o mi viene l'ipertensione"

È quasi finita, dicono. Eppure, la nostra gente continua a venire a trovarci. Certamente ci sono da fare i tamponi di screening, quelli per i parenti che vogliono andare a far visita ai propri cari ricoverati in ospedale, quelli che ritornano dall'estero per lavoro e quelli che hanno bisogno di un esito negativo come greenpass per le vacanze in giro per monti e litorali. Ma ci sono ancora quelli con sintomi tipici, come la perdita del gusto e dell'olfatto. Speriamo davvero che sia soltanto una coda di ondata.

Dopo otto mesi siamo ancora tutti qui, al Centro tamponi in Fiera. Come altrove, anche a Vicenza e negli ospedali nei dintorni le terapie intensive e i reparti Covid si stanno svuotando, un giorno dopo l'altro. I bollettini giornalieri fanno meno paura. Un'altra volta ancora sembra esserci uno strano ed improvviso ritorno a qualcosa che assomiglia alla normalità. Stavolta però è diverso.

L'Azienda Sanitaria ha deciso non solo di ridurre al mattino l'orario dedicato a tamponare, ma, con il raggiungimento della zona bianca e con l'avvicinarsi dell'estate, anche di trasferire ad altri servizi il personale rimasto negli ultimi avamposti. Ora siamo decisamente troppi considerando i flussi e i contagi. In attesa di sapere se restiamo o ce ne andiamo chissà dove, ci siamo ritrovate a ripensare a quel che abbiamo vissuto qui, tra questi ambulatori numerati fino al 12, divisi soltanto da intelaiature di tela avorio che ormai pendono solo a guardarle, come la Torre di Pisa. Persino il legno di pino è stanco di vederne e di sentirne.

Davanti alla nostra postazione, nella divisa Covid diventata tristemente nota come immagine della pandemia che ha sconvolto la nostra professione oltre che il mondo, ce ne stiamo a raccontarci aneddoti e casi umani. Per quasi un anno abbiamo tenuto in mano non soltanto il virus, appiccicato al tampone nelle secrezioni di nasi raffreddati e gole profonde, ma anche le persone.

In quei pochi minuti di prestazione infermieristica abbiamo trattato con loro e con le loro vite. Abbiamo trovato il tempo, tra una etichettatura della provetta molecolare e il mescolare l'antigene nel suo reagente, di ascoltare storie e vicissitudini e di raccogliere paure e lacrime. Abbiamo incontrato spesso l'anteprima del virus peggiore, quello che fa male davvero e porta in ospedale con un respiro che improvvisamente viene a mancare e che ha bisogno di tutto l'ossigeno del mondo per venirne fuori.

Spesso il finale di quelle storie ci è stato raccontato dai familiari, è capitato anche che fosse il malcapitato sopravvissuto a dirci tutto il suo dramma. In ogni caso, in quei casi, è stata dura. Da piangere e sorridere insieme, anche senza abbraccio.

Ora che molti di noi se ne stanno andando perché hanno finito il servizio e la loro professionalità è richiesta altrove, sento di dover dire che in otto lunghi e pesanti mesi non abbiamo tenuto solo un tampone in mano cercando di catturare alla cieca qualcosa che non si vede. Abbiamo avuto a che fare con una umanità che si è riscoperta incredula, fragile, spaventata. Che spesso ci ha fatto alzare gli occhi al cielo e che talvolta ci ha fatto persino arrabbiare, qualche volta sorridere. Per la loro ingenuità, per la mancanza di consapevolezza, per la semplicità di chi non sa e non capisce del tutto in che casino siamo finiti. Ne esce un ritratto delle persone per quello che sono, semplicemente vere. Spontanee. Disarmanti per chi come noi dentro al girone Covid ci è finito per mestiere e in guerra.

Io avevo cercato di fissare tutto nella memoria, Paola invece ha trascritto le frasi sulle note dello smartphone per averne memoria e non dimenticare niente. Per tornare a ridere, una volta finito tutto, sdrammatizzando quel che è stato, tra un tampone e l'altro.

Ora che adesso forse è finita davvero, abbiamo bisogno di ridere di noi e di voi. Con simpatia. Fate in modo di non tornare da noi ma soltanto di farci ridere. Per quel che insieme siamo stati

E con questi simpatici aforismi e molti altri non detti che ci restano dentro, pesanti, struggenti forti, pensiamo che, se ce ne andremo, avremo nostalgia del posto e degli infermieri che per centinaia di giorni hanno tamponato come se non ci fosse un domani. Abbiamo scelto di venire qui e di esserci, non possiamo scegliere di restare. Comunque vada non dimenticheremo che questi otto mesi, tanto è durata la seconda ondata, ci hanno cambiate. Siamo diverse. Se migliori o peggiori ancora non sappiamo. È troppo presto anche solo pensarlo.

Per certe cose importanti della vita come per certi traumi ci vuole tempo. Per capire. Metabolizzare. Guarire. Certamente dopo aver vissuto una pandemia dalla parte nostra e vostra, non si è più gli stessi di prima. Augurandovi ogni bene, speriamo sia finita davvero. In ogni caso, dopo aver pianto insieme, non ci resta che tornare a ridere. Forse tra poco ci riusciamo anche noi.

  • Articolo redatto con la collaborazione di Paola Cariolato - Infermiera
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