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COVID-19

Voglio avere memoria dei tuoi occhi

di Monica Vaccaretti

Il virus ci toglie il respiro ma il distanziamento sociale ci toglie umanità. Come infermiera sostengo le misure necessarie adottate contro la pandemia, ma come donna mi manca tutto ciò che manca anche agli altri. E mi chiedo fino a quando si può umanamente resistere alla mancanza di un bacio, un abbraccio, una stretta di mano? Fino a quando si può consapevolmente rinunciare alla socialità e alla convivialità che rendono gioiosi quegli assembramenti umani ora vietati per legge? Dove finiscono i miei sguardi iniziano i tuoi. Ci incontriamo così. Come su un confine che non si può oltrepassare. Lo accettiamo. Quando finalmente toglieremo la mascherina e ritroveremo il resto di noi che abbiamo dovuto tenere nascosto per proteggerci l’un l’altro, ti riconoscerò tra tanti perché avrò tenuto la memoria dei tuoi occhi e di tutto quello che vi ho letto, parole e silenzi, di fronte a quello che abbiamo vissuto insieme. Anche se vicini. Anche se distanti.

Abbiamo tutti bisogno di certezze e sicurezza. E di tornare a vivere

Le Palme. Oggi non sono in ospedale, resto nell’isolamento e nella solitudine della mia casa come tutti gli altri. Il decreto del 13 aprile è alle porte come la Pasqua e il 3 maggio è poco più in là della festa dei lavoratori. Bella festa quest’anno, “le mani che aiutano sono più sacre delle bocche che pregano”. O forse servono entrambi in questi momenti tragici.

Ma con 83 medici e 25 infermieri morti sul campo e oltre 12.000 colleghi contagiati, il primo maggio si carica di un peso difficile da sopportare per noi sanitari.

Della serie, quando tutto finirà qualcuno dovrà chiederci scusa, quando la smetteranno di strumentalizzarci chiamandoci angeli ed eroi. Il Sistema Sanitario Nazionale sta facendo qualcosa di eroico, leggo nelle breaking news. Intanto continuiamo a resistere mentre attendiamo le raccomandazioni aggiornate dell’Oms sull’uso della mascherina chirurgica e le evidenze scientifiche della comunità internazionale su un virus di cui nessuno capisce più niente tra bollettini di guerra della Protezione Civile e fake news.

Ci confortano le donazioni di pasti golosi ed abbondanti dalla Pausa Sospesa che arrivano al San Bortolo e ci incoraggiano le raccolte di fondi per acquistare DPI e ventilatori meccanici. Ci rasserena vedere che qui in Veneto la gente osserva diligente le disposizioni a stare a casa e che si mette pazientemente in fila davanti ai negozi, uniti ma distanti ben oltre la distanza di sicurezza.

Ma non abbassare lo sguardo quando incroci il mio cammino, guardami negli occhi. Non avere paura di me, perché la paura fa fare passi indietro, mai in avanti e fa cambiare marciapiedi

Abbiamo tutti bisogno di certezze e sicurezza. E di tornare a vivere una normalità che non sarà più quella prima del Coronavirus. Il distanziamento sociale aiuta indubbiamente a ridurre i contagi nella fase acuta del picco e nella lunga piatta discesa verso l’auspicato caso zero. Ma presto o tardi dovremo tornare a convivere. Con gli altri che ci mancano e con il virus che ci ammazza.

Il virus ci toglie il respiro, ma il distanziamento sociale ci toglie umanità. Come infermiera sostengo le misure necessarie adottate contro la pandemia, ma come donna mi manca tutto ciò che manca anche agli altri. E mi chiedo fino a quando si può umanamente resistere alla mancanza di un bacio, un abbraccio, una stretta di mano? Fino a quando si può consapevolmente rinunciare alla socialità e alla convivialità che rendono gioiosi quegli assembramenti umani ora vietati per legge?

Stamattina, prima dell’alba, sono stata svegliata dal traffico di auto sotto casa. Ma dove va la gente la domenica con il coprifuoco? Fugge con il favore delle tenebre e poca polizia in giro per andare a raggiungere dentro altre case amici, amanti e parenti per festeggiare almeno la festa, mi son detta.

Il Tricolore sul davanzale sventola al sole e le campane di Vicenza suonano al vento. Le chiese sono deserte come le strade, sono sospesi i riti cristiani e di ogni fede in Dio. L’Ostensione straordinaria della Sacra Sindone in streaming mi fa venire i brividi come l’Urbi et Orbi ai quattro angoli del Mondo. Mezzogiorno di silenzio.

Il posto nella tavola della festa ha solo un piatto. E ho messo tre soffioni al posto del ramoscello d’ulivo. La benedizione della settimana santa duemilaventi me la dona il fiore del tarassaco colto durante la passeggiata con Mia nell’aiuola compresa tra i 263 passi consentiti per legge. Stamattina mi sono spinta verso il viale del Cimitero monumentale, 200 metri a sinistra dal mio uscio, tanto per cambiare giro e aria. E per recitare una preghiera sotto i cipressi.

Venerdì sono arrivati a Vicenza i camion militari con decine di salme di Bergamo, le stanno cremando anche qui per dare una mano alle onoranze funebri lombarde. Come si può star dietro alla degna sepoltura di 4500 anime? La fioreria in cui amo comprare i tulipani per me e le orchidee bianche per gli amici lontani, ha posato una rosa rossa su ogni bara. Sono nomi nel vento che passano per il camino, come cantano i Nomadi di San Vito di Leguzzano, vicino all’Ospedale Covid 19 di Santorso. E tutto sta accadendo nei miei 200 metri vicino a casa. Succede attorno a me.

Mentre colgo le edere di primavera nel mio posto segreto per scriverci poesia, prego come infermiera che l’ecatombe bergamasca non sia anche qui nelle nostre corsie, che le case della mia gente siano risparmiate da tale dolore

Tengo la mascherina addosso, c’è sempre qualche anima mascherata in giro. Coi guanti pure, neri da passeggio. Non li sopporto, ma non basta il lavaggio delle mani con antisettico? Che senso hanno queste mani inguantate? Che senso hanno le facciali filtranti fp3 sulla faccia della gente, persino dei bambini e indossate male quando dovrebbero essere dispositivo di protezione ad uso esclusivo dei sanitari che invece talvolta ne sono sprovvisti?

Ho un moto di fastidio e me la tolgo dal viso. Quasi me la strappo, come sono solita fare al lavoro a fine turno quando la getto nei rifiuti patologici essendo monouso. Ora invece sono costretta a riciclarla per più giorni vista la carenza, come mi viene chiesto da quando è iniziata l’emergenza sanitaria.

E c’è pure chi tra le autorità sta suggerendo di tenerla anche dentro casa e di disinfettare le suole delle scarpe. Di renderla obbligatoria sempre e comunque. E chi all’Oms sta ancora dissertando sulla sua efficacia e a quale distanza bisogna stare lontani. Da dispositivo da non indossare per non creare allarmismo tra la popolazione, la mascherina è stata dapprima un suggerimento caldamente raccomandato ed oggi è diventata un obbligo di legge, almeno in alcune Regioni.

Ben sappiamo che la mascherina chirurgica è soltanto un gesto di altruismo verso gli altri. Protegge te da me. Se la teniamo tutti ci si protegge vicendevolmente. Da quando la tengo otto ore la secchezza delle vie aeree mi provoca epistassi. Ma la tengo anche per strada. Non perché abbia paura del contagio, ma perché lavorando in un posto dove c’è potenzialmente la più alta concentrazione di virus in questo momento non so che cosa sto portando in giro e non mi va di essere un untore, oltre che un angelo ed un eroe.

La indosso ogni mattina, legando i laccetti dietro la nuca, dopo un ultimo sguardo allo specchio. Gli occhi sono messi ancor più in evidenza adesso così cerco di esaltarne la bellezza truccandoli con cura aggiungendoci il sorriso, la determinazione e la speranza. Poi esco e mi incammino mascherata verso l’ospedale con la tua filtrante facciale fp2 in una tasca della borsa.

La conservo se ce ne sarà bisogno. Perché, facendomela trovare nella cassetta della posta, mi hai augurato di non doverla usare mai e di pensarla come qualcosa che valorizzi la bellezza della mia professione. Per il momento mi basta la chirurgica, seguo le indicazioni ministeriali per chi non è ancora in prima linea.

Da quando è iniziato lo stato d’emergenza e sono garantite solo le prestazioni urgenti e l’assistenza ai pazienti Covid, l’ospedale ha cambiato volto. Anche il nostro non è più lo stesso. Di te vedo solo gli occhi e tu vedi soltanto i miei. Se ti conosco, lavorando da tempo insieme, ti riconosco dagli occhi. Altrimenti faccio fatica a riconoscerti per salutarti. Sotto la mascherina cambia persino la voce, ovattata dal tessuto non tessuto e gli occhiali si appannano con il respiro delle parole. Certe barbe sotto quelle filtranti sono state tagliate, la maschera altrimenti non aderisce.

Mi manca la pelle. La mia. La tua. Anche solo vederla, toccarla. Mi mancano i nasi, le labbra, i sorrisi. I rossetti. Le fossette sul mento, la tua barba, le guance rasate di fresco. Mi mancano le strette di mano. Le dita. Ho nostalgia degli abbracci e dei baci sulle guance. Non si può fare nulla a distanza di un metro, nemmeno sfiorarsi. Mi mancano le espressioni, persino le rughe. L’incarnato.

Dove finiscono i miei sguardi iniziano i tuoi. Ci incontriamo così. Come su un confine che non si può oltrepassare. Lo accettiamo. Quando finalmente toglieremo la mascherina e ritroveremo il resto di noi che abbiamo dovuto tenere nascosto per proteggerci l’un l’altro, ti riconoscerò tra tanti perché avrò tenuto la memoria dei tuoi occhi e di tutto quello che vi ho letto, parole e silenzi, di fronte a quello che abbiamo vissuto insieme. Anche se vicini. Anche se distanti.

Infermiere

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