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Infermieri

Ambiti decisionali nel “fine vita” verso l'autodeterminazione

di Giuseppe Sasso

L’evoluzione del pensiero critico di massa in merito al tema dell’eutanasia ha raggiunto una fase importante negli ultimi vent’anni. Dalla mera idea di porre fine ad una esistenza straziata dalle sofferenze di un male incurabile - attraverso la somministrazione di sostanze letali in grado di rendere dolci gli ultimi istanti di vita - si è giunti oggi ad attuare condotte impensabili qualche lustro fa.

Infermiere in Terapia intensiva

Il fine vita e la giurisprudenza

Lo scorso 16 luglio 2016 il Giudice Tutelare di Cagliari ha autorizzato l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante respiratore artificiale, previa sedazione nei confronti di un soggetto affetto da patologia degenerativa cronica in stato avanzato.

Il richiedente, obbligato a letto e in situazione di totale dipendenza da anni, era inoltre nutrito artificialmente tramite PEG, portatore di catetere vescicale, tracheostomizzato e comunicava mediante sistemi acustici a comando oculare.

Ciò nonostante ha mantenuto lucidità ed è riuscito, con scritture private ripetute, a mantenere attuale la propria manifestazione di volontà in merito a quali manovre terapeutiche non accettare in previsione del realizzarsi di situazioni future (rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto, su tutte) associate a perdita di coscienza.

Durante il percorso di malattia si è sottoposto ad ogni cura necessaria. Ma al percepirsi in limine alla totale perdita di funzionalità respiratoria e constatata l’inesorabile progressione della sindrome verso la totale perdita di qualsiasi capacità, decise di inoltrare attraverso il proprio amministratore di sostegno l’istanza per la sospensione delle attività di supporto vitale.

Al di là di ogni possibile disquisizione assiologica, accettabile in ogni direzione, sulla richiesta di interruzione delle cure, la cronaca del fatto pone sotto gli occhi di ognuno come l’agire giuridico nel nostro ordinamento sia orientato sull’inevitabile riconoscimento dell’esercizio della autodeterminazione terapeutica.

Il provvedimento del Giudice Tutelare in questione è la punta di un iceberg iniziato a consolidarsi nel sistema italiano dagli anni Novanta (dopo la sentenza “Massimo” del 18 ottobre 1990 della Corte di Appello di Firenze); filtrato dalle realtà di common law, il principio del “self determination” ha trovato suggello normativo nel Vecchio Continente nelle Convenzioni di Nizza del 2000 (nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE) e Oviedo del 2001 (sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina), precipitando attraverso il filtro costituzionale nelle realtà giudiziarie più sensibili all’inarrestabile processo di rivoluzione del rapporto tra il singolo individuo e le cure sanitarie.

In seguito all’affermazione della visione olistica della persona, scienze mediche e giuridiche si sono ritrovate a dover fare i conti con una ‘utenza’ sempre più consapevole e intraprendente nonché supportata dai principi costituzionali (ex artt. 2,13 e 32), in una dimensione tecnologica che inevitabilmente ha ridisegnato i confini del raggio d’azione dei professionisti sanitari.

Attualmente la dimensione giuridica del rapporto di cura con la persona assistita orienta quella sanitaria alla tutela dell’assistito: se un tempo si assisteva allo strapotere del medico, oggi la relazione si sostanzia in una “Alleanza” dove il medico risulta legittimato a porre in essere l’attività di cura solo se corretta e accettata attraverso il consenso libero e informato dell’assistito, legittimamente prestato e revocabile in ogni momento.

In tale situazione la figura dell’infermiere quale garante della persona assistita assume ancor maggior rilievo (art. 3 del codice deontologico recita …nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo).

Il percorso giurisprudenziale in materia ha visto i propri apici nelle sentenze della Corte di Cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 e della Corte Costituzionale n.438/2008 e 253/2009.

Agglutinando i principi di diritto contenuti in tali pronunce (anche ricognitivi di precedenti emanazioni) possiamo affermare che il principio del (previo) consenso informato liberamente prestato è costituzionalmente ricavabile dal combinato del principio di inviolabilità della persona ex art.13 (che sottende il principio di autodeterminazione e disposizione del proprio corpo) con quello di previsione di trattamenti sanitari obbligatori solo per legge e nel rispetto della dignità dell’individuo.

Ne consegue che la legittimità dell’agire terapeutico è subordinata alla ‘concessione’ del paziente di affidarsi alle cure (ad eccezione delle situazioni di emergenza-urgenza).

Le Corti sottolineano come tale aspetto sia preminente anche alla tutela della salute in sé e per sé, devolvendo alla dignità e all’integrità identitaria del singolo ogni scelta in merito al proprio destino terapeutico: stile di vita, convinzioni religiose, filosofiche e di valore autorizzano la persona a rifiutare o interrompere le cure, in quanto manifesti della propria storia esistenziale ed espressione del diritto di autodeterminazione.

All’uopo giova ricordare che il codice deontologico dell’infermiere obbliga a rispettare i diritti fondamentali dell’individuo, a tenere in considerazione i valori etici religiosi e culturali della persona, prestando assistenza secondo i principi di equità e giustizia (artt. 4 e 5).

Nonostante la possibilità di esercitare la clausola di coscienza ex art.8, va tenuto presente che di fronte ad una autorizzazione del giudice ad interrompere cure di supporto vitale, vanno comunque considerate le possibili conseguenze del proprio astenersi.

Lo scorso 6 aprile 2016, infatti, il Tar della Lombardia con la sentenza n. 650 (relativa al diniego di accesso ad una struttura sanitaria per la rimozione del SNG di un soggetto in stato di coma vegetativo richiesta dal tutore e autorizzata della Corte d’Appello) ha ritenuto sussistente il fatto lesivo e la sua ingiustizia, nella condotta dell’Ente Pubblico che abbia inteso negare l’effettuazione della richiesta prestazione sanitaria, frapponendo ostacoli all’esecuzione dell’autorizzazione rilasciata dall’autorità giudiziaria, rifiutandosi deliberatamente di darvi seguito e ponendo in essere un comportamento di natura certamente dolosa, condannando l’Ente al risarcimento dei danni.

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